Rai, il governo ha forzato le norme e ridotto le competenze del Cda

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Rai, il governo ha forzato le norme e ridotto le competenze del Cda

16 Luglio 2012

Da quello che è dato sapere il Governo intenderebbe fare assegnare alla firma del Presidente gli atti e i contratti, su proposta del Direttore generale, fino a 10 milioni di euro, anziché gli attuali 2,5 e le nomine di dirigenti di prima e seconda fascia. In pratica, in contraddizione con la legislazione vigente e con lo statuto, questa intenzione sposterebbe a favore del Presidente il baricentro del potere in seno alla concessionaria penalizzando il Cda.

Oggi lo statuto prevede la pienezza dei poteri nel consiglio (art . 25. 1, in cui si dispone infatti che «il consiglio di amministrazione compie tutte le operazioni per il raggiungimento dell’oggetto sociale essendo dotato di ogni potere per l’amministrazione della Società e della facoltà di compiere tutti gli atti ritenuti necessari od opportuni per il raggiungimento degli scopi sociali") con facoltà di delegare proprie attribuzioni al presidente determinandone l’oggetto (art. 26) e di delegare singoli atti ai consiglieri. A prima vista quindi è agevole osservare che delibere del consiglio che lo privassero di attribuzioni qualificanti in tema di scelte strategiche dell’azienda relative ai contratti e alle nomine dirigenziali rischierebbero di porsi in collisione con lo statuto ma anche con la legge.

Deve infatti osservarsi che l’attuale art. 49 del d.lgs. n. 177/2005 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), al comma 12, prevede, tra i compiti del direttore generale, oltre quelli previsti dallo statuto della Rai, la proposta al consiglio di amministrazione delle nomine dei vice direttori generali e dei dirigenti di primo e di secondo livello (lett. d) e la proposta all’approvazione del medesimo consiglio degli atti e dei contratti aziendali aventi carattere strategico, ivi inclusi i piani annuali di trasmissione e di produzione e le eventuali variazioni degli stessi, nonché quelli che, anche per effetto di una durata pluriennale, siano di importo superiore a 2.582.284,50 euro (lett. g).

Ne discende quindi che il legislatore ha considerato tali poteri di spettanza del consiglio di amministrazione e quindi necessariamente soggetti alla valutazione della pluralità dei componenti del medesimo organo. Questo ultimo punto appare alla fine il più rilevante in quanto concentrando i poteri nel presidente e emarginando il consiglio si andrebbe contro quelli che sono i criteri che hanno ispirato il legislatore e che sono stati confermati dalla giurisprudenza costituzionale. E a questo proposito deve prendersi atto del fatto che lo sviluppo del sistema pubblico radiotelevisivo si è costruito nel tempo in modo da assicurare al parlamento, e quindi alle diverse sue componenti, un ruolo determinante in seno all’organo di governo della concessionaria pubblica.

Si suole giustificare questa netta prevalenza del ruolo parlamentare in virtù della esigenza di assicurare che l’attività della concessionaria rispetti nella programmazione della sua attività e nel gestire il servizio di informazione il principio del pluralismo culturale e informativo. Sul punto gli interventi reiterati dalla Corte costituzionale sono stati particolarmente incisivi. A far tempo dalla sentenza 225 del 1974 la Corte ha insistito sulla «obiettività e completezza di informazione» garantita da una «apertura a tutte le correnti culturali e da imparziale rappresentazione delle idee che si esprimono nella società». Per assicurare questi fini è indispensabile che gli organi direttivi della concessionaria non debbano «rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante del potere esecutivo». Di conseguenza devono essere «riconosciuti adeguati poteri al Parlamento, che istituzionalmente rappresenta l’intera collettività nazionale» (così la sentenza citata che è stata puntualmente confermata dalla più recente 69 del 2009).

Ma il proposito di evitare che il governo possa assumere un peso forte nel settore del servizio pubblico, mentre il parlamento deve mantenerne il controllo, è affermato anche altrove (cfr. ad esempio la 194 del 1987 dove si sottolinea la parlamentarizzazione del servizio). Come in modo molto chiaro ricorda la sentenza 69 del 2009, la legislazione nel tempo ha subito diverse non marginali modifiche ma ha mantenuto fermo il principio della prevalenza numerica dei componenti del consiglio designati dalla Commissione parlamentare di vigilanza assicurando così la preminenza parlamentare rispetto ai due componenti tra cui il presidente di spettanza del governo.

Oggi dunque il governo intenderebbe intervenire a legislazione invariata attribuendo al presidente rilevanti poteri che tra l’altro uscirebbero rafforzati ove fosse nominato direttore generale il designato dallo stesso governo e operante in stretta sintonia col primo. Inutile dire che spostare in assenza di precise norme di legge l’equilibrio fra il consiglio, che è stato voluto come espressione delle componenti politiche parlamentari indicate dalla Commissione di vigilanza, e presidente individuato dal governo del momento, rappresenta un passaggio del tutto problematico. Che le scelte legislative attuali siano discutibili e possano andare sottoposte a revisione è questione che non può essere risolta unilateralmente da una determinazione governativa.

La strada da seguirsi, evidentemente, sarebbe quella della riforma della legge e quindi dello statuto.

(Tratto da Il Tempo)