Recuperare il senso delle tradizioni per riscoprire la fede
09 Dicembre 2010
Scrivere di religione in tempi incerti e nebulosi come i nostri potrebbe sembrare per certi versi anacronistico e riportarci ai tempi in cui la religione era refugium peccatorum, vale a dire curava dalla paura della morte, dalla sofferenza e dalle tante mancanze della vita quotidiana. Del resto, siamo ancora in qualche modo figli della stagione illuministica, che ha posto l’uomo al centro del suo agire e ne ha predisposto la mente ad allontanare e guardare con dismissione il bisogno stesso della fede. Eppure, molti sostengono ancora che credere salvi l’uomo dalla propria finitezza, dal limite della ragione a cui è preclusa la speranza. Così come è vero che è necessaria alla nostra umana evoluzione, è altrettanto condiviso che la fede sia un fatto personale, privato, intimo.
E’ forse il caso di chiedersi, dunque, quale valenza assuma al giorno d’oggi la Santa Messa insieme alle altre manifestazioni che integrano la libertà religiosa del singolo. Per cercare di dare una risposta a questa domanda non possiamo non tenere conto dell’eredità che abbiamo ricevuto con il Concilio Vaticano II, negli anni in cui la nostra Italia si destava dal sonno del dopoguerra e percepiva pulsioni di cambiamento, di apertura, di condivisione alle quali la Chiesa non mancò di adeguarsi con le disposizioni conciliari in materia di liturgia: la dismissione del latino e l’apertura alle lingue "volgari" per le celebrazioni liturgiche e per i sacramenti e, ancora, lo spostamento dell’altare dalla parete al centro del presbiterio modificando la direzione in cui era rivolto il parroco, che passò dal crocifisso al versus populum.
Tutto ciò aveva per intento quello di riportare i fedeli in Chiesa, di metterli al centro dell’organizzazione liturgica in maniera tale che si sentissero partecipi delle celebrazioni. E, d’altro canto, ha permesso ai parroci di prolungarsi nell’omelia assolvendo a una funzione di "istruzione alla fede" che, nel tempo, ha tuttavia confinato in maniera crescente il concetto della Messa come riunione collettiva in cerca di un legame individualistico e paterno con la trascendenza.
Oggi, invece, sembra proprio essere tornato il desiderio di ritorno alla tradizione, alla liturgia romana che restaura per mezzo del latino e dei canti gregoriani quella dimensione solenne, mistica e trascendente che la Santa Messa ha smarrito. Una volta riavvicinati i giovani alla Chiesa, cercando di estendere anche alle nuove generazioni la partecipazione alla liturgia, ha cominciato a crescere sempre più un’esigenza di universalizzazione del linguaggio ecclesiastico, attraverso il ritorno alla lingua originaria delle celebrazioni, che riporta anche la comunità al ritrovamento della propria identità culturale e religiosa. In tempi di relativismo, questa riscoperta è diventata tanto più importante quanto più è cresciuto il bisogno di ribadire la tradizione dalla quale proveniamo.
Il pontificato di Benedetto XVI ha raccolto proprio questa sfida, attraverso un’azione quotidiana tesa a rimettere al centro i connotati identitari del cattolicesimo. Ed è proprio sulla scia di questo nuovo percorso di fede che Don Nicola Bux, nel suo libro dal provocatorio titolo "Come andare a Messa e non perdere la fede", ha interpretato tale nuova esigenza cercando di fornire al credente gli strumenti per riscoprire una religiosità antica ma, al tempo stesso, frutto delle moderne esigenze. Un modo per interpretare una tendenza affatto anacronistica e proiettata, al contrario, ad una traduzione in chiave odierna del senso dell’essere cattolici.