Referendum 4 dicembre: impossibile dimenticare!
17 Aprile 2017
La bufera sul referendum costituzionale vinto di misura da Erdogan in Turchia – con il suo contorno di propaganda di regime, schede non vidimate, polemiche sul voto all’estero – ha assunto in queste ore accenti sinistramente familiari per il nostro Paese. E l’inevitabile, provocatorio paragone tra la consultazione turca e la battaglia referendaria italiana del 4 dicembre è piombato via Twitter sull’ozioso e sonnolento lunedì di Pasquetta scatenando uno scontro al fulmicotone.
Ad accendere la miccia il cinguettio di Gaetano Quagliariello, leader di “Idea” e protagonista della battaglia per il “No” alla riforma renziana: “Turchia: campagne di Stato per il Sì, voto estero, schede senza timbri, matite farlocche. Rimembranze. In Italia, per fortuna, non decisive”. Immediata e piccata la reazione di Lorenzo Guerini, già vicesegretario Pd e ora coordinatore della mozione Renzi: “Caro Quagliariello, hai raggiunto le vette di Toninelli (deputato M5S, ndr) nella classifica delle sciocchezze della settimana”.
Risponde Quagliariello: “Caro Guerini, mi dispiace di aver provato a scalzarvi in classifica dalle vette che occupate da mesi…”, con tanto di emoticon sdrammatizzante. Il renziano non demorde: “Da chi ha ricoperto importanti responsabilità istituzionali mi aspetterei la capacità di pesare le parole e il loro significato. Serietà”. L’ex ministro delle Riforme chiude la partita: “Sono d’accordo con te. Per questo non posso dimenticare ciò che è accaduto prima del 4 dicembre”.
A quest’ultimo tweet di Quagliariello, Guerini non risponde. E difficilmente avrebbe potuto farlo senza avventurarsi in un terreno assai scivoloso. Ma allo scambio di vedute tra i due, su un tema che certamente può far discutere e suscitare opinioni anche appassionatamente divergenti, segue non un dibattito nel merito ma un “tweet-storm” che sa di stalinismo 2.0, un insulto organizzato di massa (l’“Erdogan style” applicato ai social network?) all’indirizzo del presidente di “Idea”, etichettato nel migliore dei casi come “poveraccio” trasformando in un marchio di infamia per gli avversari politici quello che un tempo era il core business elettorale della sinistra! Della serie: o sei con me, oppure non mi prendo nemmeno il disturbo di provare a confutare le tue idee: la tua sorte è il character assassination.
Il problema, forse, è che per confutare le idee c’è bisogno di argomenti. E se i suoi detrattori avessero avuto il coraggio di affrontare un duello nel merito, Quagliariello avrebbe potuto dimostrare quale fondo di verità si celasse dietro l’ironia graffiante e provocatoria del suo tweet. Il tempo tende infatti a sbiadire le tracce degli eventi nella memoria degli uomini. Ma chi ha vissuto in prima linea la battaglia referendaria del 4 dicembre, lottando a mani nude contro la (in)vincibile armata del Sì, non può dimenticare in quale clima quella partita sia stata giocata.
Riavvolgiamo per un attimo il film. Il buongiorno si è visto dal mattino, quando Maria Elena Boschi, allora ministro delle Riforme, ha inaugurato il primo comitato del Sì prima ancora che il Parlamento avesse concluso l’esame della riforma costituzionale. Poi è venuto il balletto sulla data del referendum: dapprima il governo avrebbe voluto trasformare le cabine della spiaggia in cabine elettorali per farci votare a Ferragosto; poi, visti i sondaggi, ha cercato di arrivare a ridosso di Natale sperando che l’occupazione militare dell’informazione e un ricorso sconsiderato all’indebitamento pubblico a fini elettorali potessero ribaltare i pronostici.
Quando finalmente la data è stata fissata, gli italiani sono stati chiamati a pronunciarsi su un quesito-spot che in molti hanno giudicato essere in contrasto con le pur chiarissime norme di legge in materia. E il decreto con cui poco dopo il governo ha prorogato di due anni la permanenza in servizio di pochissimi magistrati apicali, fra i quali il presidente di quella Corte di Cassazione dalla quale il quesito dipende, non ha certo contribuito a fugare i dubbi e a rasserenare gli animi.
Col solleone incipiente è arrivato il repulisti d’urgenza ai vertici delle testate giornalistiche del servizio pubblico televisivo. Prima ancora, non pago dell’appoggio dei giornaloni filo-governativi, nell’assordante silenzio delle vestali della libera informazione, il vertice dell’esecutivo ha visto rotolare (metaforicamente, s’intende!) la testa del direttore di un quotidiano d’opposizione, sostituito dall’oggi al domani con un altro direttore preventivamente schieratosi per il Sì.
Non è andata meglio oltreconfine. I già disdicevoli tour promozionali dei membri del governo, improvvisamente attinti dal sacro fuoco delle missioni all’estero nelle settimane prima del voto mentre la rete diplomatica ostacolava le iniziative di parlamentari schierati per il No, sono apparsi poca cosa quando il ministro Boschi e il senatore Pd Cociancich si sono fatti scappare in diretta Facebook che ai nostri connazionali residenti all’estero sarebbe stata recapitata la scheda per votare e, in “contemporaneità cronologica”, una lettera con la quale il presidente del Consiglio spiegava cosa votare.
E poiché il postino suona sempre due volte, a ridosso delle elezioni una brochure patinata di “Basta un Sì” è planata anche nelle case degli italiani rimasti in patria, con una diffusione massiva che a quanto si disse, per essere completata in tempo, avrebbe costretto il personale delle Poste a turni anomali e prestazioni straordinarie di lavoro.
E ancora. Mentre l’allora premier Renzi faceva il giro delle sette chiese promettendo finanziamenti a destra e a manca sotto forma non di canonici provvedimenti istituzionali ma di “patti per le città” dal sicuro ritorno mediatico, il suo governo infilava nella legge di stabilità un emendamento che consentisse ai presidenti delle Regioni dissestate di essere nominati essi stessi commissari per la sanità. Casualmente, l’emendamento stava molto a cuore al governatore Vincenzo De Luca che pochi giorni prima aveva invitato trecento amministratori locali della Campania a procurare voti per il Sì a suon di clientele.
Il gran finale è andato in onda poco prima del referendum, in una delle puntate del #matteorisponde (la app “Matteo” ancora non esisteva), quando il presidente del Consiglio ha esibito una patacca a forma di scheda elettorale per il Senato, gabellandola per il fac-simile della scheda che gli elettori avrebbero avuto in caso di vittoria del Sì per scegliere i futuri senatori, senza che il Senato avesse ancora una legge elettorale, noncurante del fatto che quella legge avrebbe dovuto comunque approvarla il Parlamento e non il premier, e omettendo di confessare che in base alla riforma Boschi nessuna scheda avrebbe mai potuto garantire ai cittadini il diritto di scegliere i propri senatori.
Il resto è storia. La sconfitta popolare, la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale una legge elettorale imposta da Renzi a colpi di fiducia, le trame per restare al potere manovrando dietro le quinte un governo-fotocopia, le trame per tornare a Palazzo Chigi purché non lo si dica ad alta voce perché loro sono “diversi”.
Tutto questo accadeva nella civilissima Italia nell’anno di grazia 2016. E, per ricostruire il clima degli ultimi anni, registriamo anche un episodio di un certo rilievo raccontato in questi giorni sul “Quotidiano Nazionale” dal direttore Andrea Cangini, che in assenza di smentite (fin qui non pervenute) è destinato a ingrossare il dossier: “Durante il suo primo anno di governo – scrive Cangini –, Matteo Renzi si ritirò per qualche giorno con la famiglia in un bell’albergo sul mare. Cercava riposo e riservatezza. Un cronista prese una camera vicino alla sua con l’intenzione di scrivere qualche pezzo ‘di colore’ sulla vita privata del premier. Niente di insidioso. Dopo l’uscita del primo articolo, il giornalista sentì bussare alla porta, aprì e si trovò al cospetto di un signore robusto che, qualificatosi come agente dei servizi segreti, con tono convincente inanellò tre affermazioni in un’unica, breve frase: ‘So chi sei, so chi è tua moglie, so chi è la tua amante’. Il collega capì il messaggio e fece la valigia”.
Anche il nostro Paese ha dimostrato il 4 dicembre di aver capito il messaggio. Matteo Renzi forse lo ha compreso un po’ meno. Resta da chiedersi, al di là dei tweet e delle provocazioni, se sia tanto lontano dal vero che tra Ankara e Rignano, tra il Bosforo e l’Arno, tra referendum e referendum, la differenza che passa è l’esito di una consultazione che l’Italia farebbe bene a benedire ogni giorno.