Referendum: la Grande Sberla

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Referendum: la Grande Sberla

06 Dicembre 2016

Grande paese, il nostro, grandissimi gli italiani, che quando votano difficilmente si lasciano incantare da pifferai e sirene, nemmeno quando le sirene promettono soldi a destra e manca. Ma qualunque fosse stato l’esito del referendum, viva la democrazia, abbasso chi cerca di restringere la sovranità popolare. 

La botta del 4 dicembre lascia tanta parte della nostra classe dirigente, politica e non, parecchio intontita. Sapevano che c’era il rischio di perdere, ma immaginavano che il margine sarebbe stato ridotto, e che il voto estero, con le sue percentuali rovesciate (circa 65% sì e 35% no, col Sudamerica oltre il 70) avrebbe magari potuto incidere in modo decisivo. Invece il colpo è stato fortissimo, e ha scombinato tutti i piani.

Di seguito gli ultimi appunti sulle reazioni alla Grande Sberla.

– Il discorsetto di Renzi, tanto lodato, ha avuto spesso un tono tra stizzito e minaccioso. La commozione c’era, ed è stata la cosa migliore che è affiorata nelle parole del premier dimissionario. Per il resto, il senso era: ora vedremo cosa farete senza di me! Dimenticando però che lui è ancora il segretario del Pd, che in una camera il suo partito ha la maggioranza da solo e nell’altra ha ancora i suoi vecchi alleati. Dunque Renzi resta decisivo, e non può lanciare la palla in tribuna, almeno finché non si dimette anche dal partito.

– La cosa migliore, abbiamo detto, sono stati i toni commossi e il richiamo alla famiglia. Notiamo che Renzi è entrato trionfalmente sulla scena politica, alla Leopolda, accompagnato da una Boschi ammaliante e leopardata, e se n’è andato da Palazzo Chigi abbracciando una Agnese partecipe e come al solito discreta. Insomma, l’altra cosa migliore dell’uscita di scena di Matteo è stata sua moglie.

– Oltre che a Renzi e alla sua riforma, il  no degli elettori è stato uno schiaffo ai giornaloni-dei-padroni, alle tv addomesticate e servili, a conduttori e opinionisti allineati e coperti. Come abbiamo già scritto: e poi si lamentano che i giornali non li compra più nessuno…

– Onore, in questo campo, ai giornalisti del Fatto quotidiano e a Marco Travaglio, da cui ci divide quasi tutto, ma che si sono battuti alla grande; imperdibile, ieri notte, la sparata di Travaglio contro i grandi media, davanti alle facce impietrite di Marcello Sorgi (Stampa) e Aldo Cazzullo (Corriere), e all’imbarazzo di Mentana. Nessuno che rispondesse al quesito fondamentale: com’è che, anche dopo Trump, avete continuate a non saper interpretare e capire la realtà di quel 60% di italiani del no? Com’è che su Berlusconi facevate i duri e puri mentre a Renzi avete lasciato passare ogni porcheria?

– Fantastico il tempismo con cui l’alleato principale di Matteo, Alfano, ha annunciato pubblicamente la prossima nascita di una “unione dei moderati” per chi “non vuole stare a sinistra (sic!) e non vuole Salvini”. Rispondono entusiasticamente Pera, Urbani e Zanetti, tutti a pronosticare un grande avvenire per il nuovo soggetto politico dei cosiddetti moderati, che nasce “contro l’accozzaglia del no”, come spiega Nello Formisano, che alla camera è a capo del gruppo nato dal matrimonio tra verdiniani e ex di Scelta civica. Che giorno è? La vigilia del voto sulla riforma. Il giorno dopo, sei elettori su quattro assestano in pratica un colpo mortale al progetto prima ancora che prenda forma.  

– Patetico invece il tentativo, un po’ in sordina, di utilizzare la percentuale dei sì come fosse proprietà renziana. Era il piano B in caso di sconfitta: sostenere che Renzi da solo aveva preso poco meno della metà dei voti, e l’intera “accozzaglia dei no” poco di più. Ma il piano prevedeva una sconfitta di misura. Con la valanga che si è rovesciata su Renzi, tweet come quello di Luca Lotti (“Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!”) fanno cadere le braccia.

– Su tutti i commenti svetta la metafora, come sempre un po’ surreale, di Bersani: ricordate la famosa “mucca nel corridoio”? Ora “la mucca è diventata un toro”, conclude l’ex segretario del Pd, siglando la fine dell’era renziana.