Regeni, Amnesty e la Turchia
24 Aprile 2016
Il governo egiziano cerca almeno a parole di ricucire lo strappo diplomatico che si è aperto con l’Italia dopo l’omicidio di Giulio Regeni? Spunta la figlia del presunto capo dei banditi accusati di aver ucciso il giovane ricercatore italiano, e dice che i servizi egiziani piazzarono gli effetti personali di Regeni in casa dei suoi familiari per incastrarli. L’Egitto manda una sua delegazione a Strasburgo per fare chiarezza su qual è la situazione dei diritti umani nel Paese? L’agenzia britannica Reuters pubblica lo ‘scoop’ sulla polizia che il 25 gennaio scorso avrebbe prima fermato Regeni per consegnarlo nello stesso giorno alle forze della sicurezza di Al Sisi.
Il Cairo pare intenzionato a mandare un’altra delegazione, questa volta in Italia, all’inizio di maggio, per fare il punto con i nostri inquirenti sulla morte del ragazzo dopo il buco nell’acqua di qualche settimana fa? L’Università di Cambridge, che diede per prima la notizia della scomparsa di Regeni, si mobilita ancora una volta e Amnesty International chiede a gran voce che il Governo Cameron sottoscriva l’appello lanciato giorni fa in cui si chiede verità sulla morte di Giulio.
Nulla da eccepire se la stampa fa il suo lavoro, se i mastini del giornalismo inglese si attaccano ai polpacci di Al Sisi o se le associazioni che si battono per i diritti umani organizzano manifestazioni con cadenza settimanale, ma vista la precisione delle denunce e la tempestività delle mobilitazioni qualche altra domanda è pure il caso di farsela. Per esempio che razza di immagine dei servizi segreti egiziani esce da queste ricostruzioni.
Certo è possibile che qualcuno, il 25 gennaio scorso, abbia pensato stupidamente di farla franca. Può anche essere che dentro le strutture della forza del Cairo si stia combattendo una battaglia sempre più aspra. Ma è verosimile che i servizi egiziani abbiano preso in custodia Regeni dopo il fermo della polizia, imprigionando un cittadino italiano – proveniente cioè da un Paese con cui il Cairo sta(va) rafforzando le sue relazioni politiche ed economiche (il maxi giacimento Zohr con Eni) – per poi farlo ritrovare morto con i segni delle torture sul corpo? Di solito, quando i servizi, deviati o meno, ‘prelevano’ qualcuno per fargli fare una fine terribile come questa lo fanno sparire e basta.
Per non dire di Reuters che in realtà ieri ha solo aggiunto un vero elemento di novità rispetto alla pista già aperta dal New York Times, la data della scomparsa di Regeni, che certo è un aspetto importante, ma probabilmente non basterà a scatenare il Watergate d’Egitto. E che dire di Amnesty, in prima linea nel fuoco di sbarramento contro il ‘regime’ di Al Sisi? Perché non si parla con la stessa insistenza quotidiana della Turchia? Il generale Al Sisi è oggi l’unica incarnazione del male mentre il sultano di Ankara è un fautore della libertà di informazione con il quale chiudere accordi miliardari sull’immigrazione?
Ecco, sono questo genere di domande e contraddizioni che seminano il tarlo del dubbio. Perché forse qualcuno sta avendo la tentazione di cavalcare l’indignazione della società civile sul caso Regeni per lucrarci sopra politicamente. Perché forse bisogna allargare un attimo il tiro dall’Egitto alla Libia e ricordarsi che mentre noi italiani, mandati avanti dagli americani, sponsorizziamo un governo di unità nazionale rinchiuso, per adesso, nella ridotta di Tripoli, altri Paesi europei, come la Gran Bretagna e la Francia, insieme a russi e sauditi, pensano che ‘un’altra Libia è possibile’, spaccata in due sarebbe pure meglio.
Abbiamo sentito cosa ha detto l’altra sera l’ex ad di Eni, Scaroni, a Otto e Mezzo, che se lo scenario è questo, una balcanizzazione della Libia, l’Italia farebbe meglio a preservare i suoi di interessi in Tripolitania. Che l’Eni non è un’intelligence-ombra ma conosce bene i Paesi dove opera e, aggiungiamo noi, andrebbe messo agli atti il fatto che fino adesso, da parte del Cane a sei zampe, non sia emersa nessuna denuncia diretta dei legami tra i vertici dello stato egiziano con la morte di Regeni.
Ma soprattutto Scaroni mette ancora una volta in guardia dal caos libico che se dovesse perpetuarsi avrebbe come conseguenza una destabilizzazione dell’Italia, innanzitutto “dal punto di vista politico”, film già visto, ricorderete qualche anno fa quali furono le conseguenze dell’avventurismo anglo-francese in Libia sul governo italiano. In un contesto del genere, un Egitto altrettanto destabilizzato sarebbe la ciliegina sulla torta per (continuare a) coltivare la dottrina del caos nel Mediterraneo.
Da ultimo e per chiudere, l’Italia. Dopo aver appreso la notizia sul fermo di Regeni diffusa da Reuters, il nostro ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, ha detto che il Governo non fa valutazioni ma continua a seguire l’unica strada possibile, arrivare alla verità. Eppure dopo il rientro del nostro ambasciatore al Cairo, la sensazione è che anche l’esecutivo di Matteo Renzi abbia iniziato a tirare il freno a mano con l’Egitto, e che invece di pensare ai boicottaggi del turismo ora ci si chieda più realisticamente come riannodare i fili dispersi del dialogo con il Cairo, visto che gli egiziani, come abbiamo spiegato all’inizio, hanno ammorbidito il muro contro muro.
Il governo italiano, a causa della cultura politica della quale è frutto, fino adesso si è dimostrato un po’ troppo ingenuo, dando l’impressione di volersi accodare alle denunce e alle mobilitazioni che, ripetiamo, sono giustissime, se non fosse che una cosa è Amnesty, una cosa è Reuters, e altra cosa il potere esecutivo che al momento è alla guida del nostro Paese. Una cosa non vale l’altra. La lezione da trarne è che nel gioco, nella partita a scacchi in corso nel Mediterraneo, occorre ponderare con la massima prudenza e accortezza le proprie mosse, perché se vogliamo fare davvero giustizia sulla morte di Regeni bisogna evitare di rincorrere interventi e ipotesi che molto spesso sembrano avere solo un carattere strumentale e che contribuisconi indirettamente al caos di cui parlavamo. E c’è interesse che tutto ciò avvenga.