Renzi vs Bersani certifica la crisi del Pd ma anche il Pdl paga i suoi errori

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Renzi vs Bersani certifica la crisi del Pd ma anche il Pdl paga i suoi errori

31 Ottobre 2011

Se qualcuno nutriva dubbi sulla concreta possibilità che il Partito democratico divenisse il fulcro di una seria alternativa al centrodestra, dopo le baruffe chiozzotte dello scorso fine settimana credo li abbia abbandonati del tutto.

Sulla direttrice Firenze-Roma, il partito che da tre anni, precisamente da quarantadue mesi, chiede la crisi del governo sostenuto dalla coalizione che ha vinto le elezioni così, tanto per esorcizzare la propria impotenza, ha certificato il fallimento programmatico iscritto fin nell’atto fondativo, impaludandosi nella guerra delle nomenklature.

I rottamatori della stazione Leopolda ed i custodi dell’ortodossia se le sono tirate addosso di santa ragione, ma dalle palate di gambo intercorse e dagli insulti sanguinosi che non si sono risparmiati, è difficile credere che possa venir fuori il partito nuovo che, nascendo da un’ibridazione innagurale, si proponeva di costituire in Italia un granitico polo socialdemocratico contrapposto a quello nazional-conservatore.

A dire la verità era piuttosto agevole prevedere un tale esito assolutamente negativo, come si sta sperimentando, dalla cosiddetta “fusione a freddo” che aveva partorito il Partito democratico. Fin da subito, infatti, fu chiaro che i democrat si sarebbero segnalati all’attenzione non certo per l’alto valore della proposta politica che pur sostenevano di avanzare con l’ambizione di cambiare addirittura il sistema dei partiti, bensì per le lotte intestine di potere a cui avrebbero dato vita piuttosto, figli com’erano della più vigorosa tradizione partitocratica del dopoguerra. In effetti le lotte di potere, ereditate dal vecchio Pci-Pds-Ds e da scampoli della sinistra democristiana, che si sono trasformate, nel giro di pochi anni, in lotte generazionali, sono oggi l’essenza stessa del Pd, indecifrabile ircocervo, nel quale convive tutto ed il contrario di tutto.

Per tale motivo Matteo Renzi e Pierluigi Bersani rappresentano non il “nuovo” e il “vecchio” che si contrappongono insanabilmente nel Pd, ma insieme il “mito incapacitante” di un partito oggettivamente provvisorio, sospeso tra tentazioni regressive e provocazioni scapigliate. Un soggetto, quindi, neppure consapevole che la partita che si sta giocando in Italia nel contesto occidentale è finalizzata a costruire nuovi assetti sociali fondati su culture emergenti e modalità inedite di aggregazione che richiedono politiche in grado di rispondere ai disagi giovanili e alle inquietudini delle generazioni avanzate con l’abilità di alchimisti di un welfare pragmatico almeno come quello che venne inventato alla fine dell’Ottocento paradossalmente da un conservatore come Otto von Bismarck, superando le previsioni degli anarco-marxisti del tempo e lasciandoli litigare sulla purezza rivoluzionaria mentre la Germania, si dava uno Stato sociale che avrebbe fatto scuola nel resto d’Europa.

Le necessarie ed inedite sintesi, dunque, sembra che sfuggano agli eredi del comunismo intrecciatisi con quelli del cattolicesimo democratico. Gli uni e gli altri da quasi un quindicennio sono alla ricerca di una convivenza problematica e non trovandola riempiono il vuoto dedicandosi ad un gioco pericoloso: l’autolesionismo. Ne è consapevole Beppe Fioroni, esponente di spicco post-dc che alimenta il dibattito interno con rara lucidità e lo paventano l’inventore ideologico del Pd, Michele Salvati (l’economista che gli ha dato il nome) e colui che ha cercato di interpretarlo al meglio sul territorio, come sindaco di Torino e come dirigente realista ed inascoltato, Sergio Chiamparino. Espressioni, queste citate, delle diverse componenti e sensibilità del Pd, che ritengono unanimemente la riduzione del dibattito sulle primarie – che potrebbe essere la Caporetto del partito a giudicare dalle fratture che sta provocando – pregiudizievole alla definizione del programma intorno al quale costruire l’alleanza da contrapporre al centrodestra.

Da qui la preoccupazione che la nuova Unione, fondata sull’approssimativo “patto di Vasto” ed aperta al suggestivo allargamento al Terzo Polo coltivato soprattutto da Massimo D’Alema, insolitamente confuso negli ultimi tempi, non si trasformi nel cantiere della Torre di Babele a tutto vantaggio degli avversari del centrodestra.

Questi ultimi, che pure hanno motivi di seria preoccupazione per ciò che accade al loro interno, non sembrano avere ben presente la situazione di scollamento che si sta producendo nel Pd. È un segno di debolezza politica e di irresolutezza culturale. Sintomi che la dicono lunga sullo stato del Pdl incapace di profittare delle difficoltà del Pd per rilanciarsi con una grande operazione di accreditamento quella parte di elettorato deluso dalla non brillante tenuta della maggioranza. Potrebbe farlo se ritrovasse le ragioni della coesione quale presupposto per attuare i provvedimenti presentati all’Unione europea da un lato e dall’altro se, rovesciando le parti, incalzasse come coalizione di governo quella di problematica definizione che intenderebbe sfidarla, sul suo stesso terreno dove si fronteggiano opzioni inconciliabili nella valutazione della crisi economica e finanziaria oltre che sui più vasti temi inerenti le convulsioni della modernità nel cui ambito si sviluppano contraddizioni che sfociano, come stiamo vedendo, in pericolosi conflitti sociali.

Sicché le crisi parallele del centrosinistra e del centrodestra sembrano destinate a coesistere in una lunga stagnazione politica nella quale l’irruzione possibile, anche se da Berlusconi e da Alfano sempre negata, delle elezioni anticipate non modificherà sostanzialmente lo stato delle cose vigente una legge elettorale destinata a cristallizzare il potere di nomenklature prigioniere del loro stesso destino: quello di non aver riformato i partiti di riferimento per tempo adeguandoli alle esigenze culturali di società dinamiche e dunque imprevedibili. Una responsabilità enorme, se si guarda alle distonie che si producono nel quadro politico, che ha prodotto, per dirla con la brutalità del caso, un bipolarismo impotente, caricatura della democrazia dell’alternanza.

Non è un risultato del quale la morente Seconda Repubblica possa andare fiera.