Repubblicani in cerca di identità tra Sarah Palin e Ronald Reagan
14 Novembre 2008
Quale GOP dopo il flop? Come prevedibile, già all’indomani del 4 novembre, il dies horribilis per i Repubblicani, è iniziato il confronto tra le diverse anime del conservatorismo sul futuro del Grand Old Party. Alcuni si consolano sottolineando che, nonostante il successo di Obama e il netto avanzamento di posizioni dei Democratici al Congresso, gli Stati Uniti rimangono “The Right Nation”, una nazione intimamente di centro-destra. Secondo questa tesi, saremmo di fronte non ad un riallineamento ideologico, ma ad un semplice spostamento di forze a livello partitico. Tale affermazione è in effetti suffragata da alcuni sondaggi sull’autoidentificazione politica degli elettori. Nelle ultime elezioni, infatti, solo il 24 per cento dei votanti si è dichiarato liberal a fronte di un 34 per cento autodefinitosi conservatore e un 44 per cento che ha barrato la casella “moderato”. La questione, però, è che, proprio guardando a quest’ultima fondamentale categoria, il senatore dell’Illinois ha staccato di 21 punti il suo avversario repubblicano (60 a 39 per cento).
Un dato che fa a scrivere a Rich Lowry, firma della rivista conservatrice “National Review”: “L’America resta di centro-destra e questa è una buona notizia. Ma i Repubblicani hanno perso il centro”. Barack Obama ha vinto perché è riuscito a mettere assieme una coalizione plurale che va dagli afro-americani ai latinos (che all’inizio non si fidavano di lui), dai liberal di New York ai repubblicani dell’Indiana delusi dall’amministrazione Bush. Il senatore democratico ha così rimodellato la mappa elettorale americana con il rischio, annota sempre Lowry, che i Repubblicani diventino i referenti di una base elettorale sempre più ristretta, rappresentata dal trinomio anziani-bianchi-rurali.
Anche il neoconservatore William Kristol prevede tempi difficili per il partito dell’Elefante. In particolare, in un fondo pubblicato questa settimana sul “New York Times”, il direttore del “Weekly Standard” mette in guardia i Repubblicani dal sottovalutare Barack Obama. Il presidente-eletto, scrive Kristol, offre una “combinazione potente: competenza più calore umano”. Inoltre, rileva, Obama ha il vantaggio di “ereditare una recessione che gli renderà difficili i primi due anni (crisi economica per la quale non sarà comunque incolpato) a cui potrebbe però seguire una ripresa al momento giusto per la rielezione”.
Ma di che cosa ha bisogno il partito Repubblicano per tornare ad essere vincente già dalle elezioni di mezzo termine del 2010? Secondo Henry Olsen, vice presidente dell’“American Enterprise Institute”, uno dei think thank più autorevoli nel panorama della destra americana, il GOP non deve smarrire le sue radici ed anzi deve tornare alla parola chiave della rivoluzione reaganiana: “Freedom”. “Un conservatorismo che abbandona la libertà – ha scritto Olsen sul “Wall Street Journal” – non è un conservatorismo americano”. Il richiamo alla libertà non basta, è invece il parere del “Christian Science Monitor” che in un editoriale del 7 novembre si chiede se i Repubblicani abbiano un loro “Yes, we can”. Secondo il quotidiano, il GOP deve andare oltre la contrapposizione tra “libertà” ed “eguaglianza” ed investire su un nuovo messaggio: “Opportunità”. E’ così, scrive l’Editorial Board del “Monitor”, che Obama ha vinto le elezioni e ha dato una nuova veste al partito democratico.
Nuove idee le invoca anche il “neocon” David Frum, già speechwriter di Bush. In un commento apparso nei giorni scorsi sul “Daily Telegraph” di Londra, Frum ha esortato i Repubblicani ad andare oltre l’elettore “maschio, bianco, di mezza età”, incarnato in queste presidenziali dall’ormai celeberrimo “Joe l’operaio” dell’Ohio. Per intercettare i nuovi elettori che il 4 novembre hanno votato in massa per Obama, il GOP dovrà rivedere profondamente la propria piattaforma ideologica. “Questo – ritiene Frum – comporterà dei mutamenti dolorosi su temi come ambiente e aborto e richiederà dei cambiamenti perfino più dolorosi di stile e di tono che conducano ad un partito meno legato alla religione e meno polarizzante sui temi sociali”.
Non tutti, ovviamente, sono d’accordo con l’inventore della formula “asse del male”. Il senatore della South Carolina, Jim DeMint, capofila della corrente più conservatrice del Grand Old Party, pensa che la sconfitta di McCain “rifletta il fallimento dei Repubblicani nel mantenere le proprie promesse sui principi conservatori”. DeMint critica duramente le scelte di Bush che hanno portato ad un ruolo sempre più marcato del governo centrale e invoca un ritorno alla dottrina Reagan, quella riassunta nell’affermazione: “Il governo non è la soluzione, il governo è il problema”. A Reagan e alla sua economia, la “Reaganomics”, chiedono di tornare anche Grover Norquist, leader del movimento antitasse, e il popolare conduttore radiofonico di destra Rush Limbaugh. Per entrambi, Bush ha fatto deragliare il partito Repubblicano dai binari del conservatorismo. Ha perso lui, dicono, non le idee della destra.
Se dunque è quanto mai aperto il dibattito su quale strada intraprendere, altrettanto acceso è il confronto su chi potrà impersonificare il riscatto repubblicano. Per una vecchia volpe del giornalismo conservatore americano come Robert Novak, sarà Newt Gingrich l’uomo su cui il GOP scommetterà per strappare ad Obama la Casa Bianca nel 2012. L’ex speaker della Camera è noto per i suoi difetti di carattere, ma, sottolinea Novak, è altrettanto conosciuto per la sua energia e per la sua capacità di produrre nuove idee. Caratteristica, quest’ultima, di cui il partito dell’Elefante ha ora estremamente bisogno. Altri puntano invece sul 37enne governatore della Lousiana, Bobby Jindal (Pennsylvania Avenue gli ha dedicato un ampio ritratto già il 3 aprile scorso). Star nascente del GOP – di origine indiana, convertito al cattolicesimo con un curriculum notevole – Jindal è per molti la risposta repubblicana alla rockstar Obama.
Né ormai si possono più fare i conti senza Sarah Palin. Molti, negli States, si chiedono “How far will she go?”, fino a dove potrà arrivare. La governatrice dell’Alaska ha, indubbiamente, ravvivato gli animi della base repubblicana in un periodo di scarse emozioni per gli spiriti conservatori. Dal suo staff, ricordano che nelle prime 12 ore dopo il suo debutto al fianco di McCain, la campagna del senatore dell’Arizona ha raccolto la cifra record di 4,4 milioni di dollari. Ma la sua inesperienza, emersa impietosamente in alcune interviste, non rassicura affatto l’establishment del GOP che già la riteneva inadeguata quale vice, figurarsi come Commander-in-Chief. D’altro canto, alla cacciatrice di caribù restano ancora due anni di mandato al governo del 49.mo Stato dell’Unione. Poi, nel 2010, potrebbe tentare di approdare al Senato. Impresa, tuttavia, non facile. La Palin dovrebbe, infatti, prevalere sulla senatrice repubblicana Lisa Murkowski, che riscuote un consenso molto alto. L’ultimo sondaggio le attribuisce un gradimento del 63 per cento tra gli elettori dell’Alaska.
E John McCain? Il protagonista di mille battaglie non andrà in pensione. Se il partito Repubblicano, pur duramente sconfitto, può riprendere la sua strada senza drammi è in gran parte merito suo. In un anno nel quale tutto gli remava contro, dall’economia all’impopolarità di Bush, McCain è riuscito a portare a casa il 46 per cento dei voti. (Paradossalmente, complice la candidatura indipendente di Ross Perot, nel 1992 Bill Clinton fu eletto presidente con una percentuale inferiore). Ora a 72 anni e con la libertà di chi non deve più preoccuparsi di accontentare tutti, il vecchio John potrà tornare alla dimensione che gli è più congeniale, quella del “Maverick”, del battitore libero. Chi lo conosce bene assicura che McCain è pronto a collaborare con il nuovo presidente sui temi chiave, a dimostrazione che il motto della sua campagna presidenziale, “Country first”, non è un semplice slogan ma la sintesi di tutta una vita al servizio dell’America. Difficile immaginare oggi quale ruolo avrà nel futuro del partito Repubblicano. Intanto, però, il suo amico e consigliere Mark McKinnon, intervistato dal “Time”, formula una previsione: “I migliori anni di John McCain sono davanti a lui”.