Requiem per il socialismo (italiano)

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Requiem per il socialismo (italiano)

29 Febbraio 2008

 I
socialisti italiani, nelle prossime elezioni, rischiano di scomparire..E con
loro rischia di sprofondare nel regno delle ombre una tradizione politica e
culturale che ha segnato, nel bene e nel male, tante pagine significative della
storia unitaria. Il nazionalista Gioacchino Volpe, i liberali Benedetto Croce e
Luigi Einaudi, i democratici libertari Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli, per
limitarci a queste grandi figure del passato, hanno tutti riconosciuto la
funzione storica positiva svolta dal partito di Andrea Costa, di Filippo
Turati, di Claudio Treves:  il ‘riscatto
delle masse diseredate’, l’educazione di proletari e contadini alla cultura
della cittadinanza, lo spirito associativo penetrato nelle campagne e nelle
città, le organizzazioni sindacali che hanno elevato il tenore di vita degli
operai e consigliato agli imprenditori innovazioni tecnologiche che hanno messo
il nostro paese  sulla via della
modernizzazione. Accanto a queste luci, però, non sono mancate le ombre. In
momenti cruciali per la sopravvivenza o per la crescita delle istituzioni
democratiche, i socialisti si sono dimostrati del tutto inadeguati alla
funzione cui sembrava destinarli la storia. Nel primo dopoguerra, furono
incapaci sia di fare la rivoluzione che di assumersi precise responsabilità di
governo:i   riformisti ortodossi non vollero, fino al 1922
quando ormai era troppo tardi, separarsi dagli inconcludenti massimalisti per
aderire, con cattolici e   giolittiani, a un ministero di unità nazionale
capace di difendere le istituzioni democratico-rappresentative. Nel secondo
dopoguerra, affascinati dalla potenza sovietica ed entrati nel fronte popolare(sia
pure differenziandosi dagli alleati in nome di fumose ideologie terzaforziste e
neutraliste), gettarono alle ortiche un patrimonio ideale che ne aveva fatto il
primo partito della sinistra. In tempi meno lontani dai nostri, con Bettino
Craxi–pur tanto benemerito per aver divelto ogni residuo legame con la
sinistra marxleninista—furono decisivi nell’affossare il programma nucleare
italiano,un gravissimo errore di prospettiva che stiamo ancora scontando con gli
alti costi dell’energia.

  Alle origini di tali défaillances  si può forse ipotizzare una ricorrente
incapacità di restare fedeli alle proprie radici. Il socialismo italiano viene
al mondo nutrito di romanticismo etico e di positivismo filosofico: crede
nell’evoluzione sociale, nella solidarietà, nel compito redentore dei governi,
nel ruolo della scuola ai fini dell’alfabetizzazione e dell’elevazione del
popolo, nella tolleranza delle opinioni e delle credenze religiose, nella
democrazia liberale borghese che non vuole distruggere ma allargare. Tra i suoi
simboli, a parte gli evocati fondatori, ci sono Pellizza da Volpedo, Edmondo De
Amicis, Giovanni Pascoli, esponenti di un mondo che non intende affatto rompere
i ponti con i valori del terzo stato—l’onore, la rispettabilità, l’agiatezza a
compenso del lavoro onesto, il senso della famiglia, il tricolore, il culto del
Risorgimento popolare e democratico  dei
Mazzini, dei Pisacane, dei Garibaldi, il convincimento radicato che la
dialettica dei partiti politici assicuri sia le libertà politiche che i diritti
sociali—ma vuole che quei valori diventino bene collettivo.
In teoria, sono lontani anni luce dalla sua forma
mentis
il salto rivoluzionario, la palingenesi sociale, la sostituzione dei
noti e amati paesaggi dello spirito con la sovversione nichilistica, la
tentazione anarchica e libertaria. E in effetti non v’è nulla di più estraneo
al gruppo animatore di ‘Critica Sociale’ della sfida lanciata da Georges Sorel—col
mito dello ‘sciopero generale’– alla borghesia:il sindacalista rivoluzionario
guarda a quest’ultima con lo stesso animo con cui il cristiano Tertulliano
guardava alla civiltà pagana, una civiltà da distruggere ab imis, mortificando il suo razionalismo platonico e aristotelico
col provocatorio <credo quia absurdum>.
I socialisti, al contrario, intendono somigliare a quei cristiani, detestati dal
teologo, che non vedevano soluzione di continuità tra l’Accademia, il Peripato
e la Stoa, da un
lato, e il messaggio evangelico interpretato dai Padri della Chiesa,
dall’altro. E’il   marchio
che fino a ieri  contrassegnò la sinistra
riformista, simbolo di rinuncia al sole dell’avvenire se non del tradimento.

 Né fu soltanto la sinistra proletaria a
denunciare la degenerazione socialdemocratica giacché la stessa società
borghese, nelle sue frange critiche e libertarie, non fu da meno. Giovani come
Piero Gobetti e anziani come Gaetano Salvemini (prima maniera) erano così
disgustati dai compromessi del giorno per giorno—che sono poi quel bargaining che i gruppi di pressione
praticano in ogni sistema democratico che si rispetti— realizzati dalla
dirigenza riformista da preferire alle barbe di Turati e di Modigliani le
camice nere di Mussolini e di Roberto Farinacci. Per i borghesi irrequieti   non c’è
nulla di più intollerabile della mentalità piccolo-borghese, con la sua
congenita incapacità di emanciparsi dai pregiudizi  dell’eterna provincia italiana, col suo culto
del benessere e dei salari alti, con la sua indisponibilità ai sacrifici
eroici, sia in fabbrica che in trincea.

Dinanzi a questo accerchiamento da
destra e da sinistra, i riformisti in varie occasioni, sia pure obtorto collo, hanno finito
coll’ammainare la loro bandiera: si sono ‘aperti al nuovo’, hanno recitato il mea culpa, hanno rivisto simboli e
linguaggio (ponendo  in mezzo al libro la
falce e martello con dietro il citato sol dell’avvenire), si sono affidati alla
guida di intellettuali militanti che nulla aveva a che fare con la tradizione  di ‘Critica Sociale’. Tipici i casi
dell’azionista  Francesco de Martino,
l’uomo che non avrebbe esitato a nazionalizzare i giornalai se il PSI  avesse avuto la maggioranza dei suffragi
elettorali e di Giuliano Amato, un esponente di primo piano  dell’establishment,
che qualche anno fa  definiva ‘attuale’ la
lezione di…Lelio Basso (sic!). Complesso di inferiorità dinanzi agli homines 
novi
incessantemente sfornati dall’ideologia italiana? Sfiducia
sostanziale nella perenne validità dei valori antichi? Debolezza di uomini e
piccole ambizioni? Forse un po’ di tutto questo ma prima ancora un’ossessione
tipicamente italiana: la paura di venir ‘superati’ e relegati nella mitica
soffitta della storia, il timore che in groppa al destriero del Progresso salti
 la concorrenza, la voglia di dimostrare
alle avanguardie ‘rivoluzionarie’  che
sui socialisti possono sempre contare, giacché anche se si trovano al governo
in posizione umiliante e subordinata ne capiscono bene i bisogni e le istanze innovatrici.

 Di
qui il ‘movimentismo’ tattico dei socialisti che li portò a simpatizzare con
chiunque, negli anni fatidici attorno al ’68, contestasse da sinistra le
burocrazie comuniste nonché a un ipergarantismo attentissimo ai diritti degli
imputati ma indifferente ai diritti delle vittime..

 Sennonché, ci si chiede, cosa indusse, poi, il
PSI a mostrarsi più ‘movimentista’ degli altri partiti di sinistra? E perché,  nonostante le   generose
elargizioni di denaro (la storia dei rapporti tra le varie dirigenze di Via del
Corso ,da Giacomo Mancini a Bettino Craxi, con maoisti, guevaristi, palestinesi
è tutta da fare..), non beneficiarono affatto del riflusso post-sessantottesco?
Perché pentiti e dissociati, nella stragrande maggioranza, tornarono alle
Botteghe Oscure e molti di loro, in seguito, cambiarono addirittura sponda,
diventando il brain trust dei nuovi
attori politici—Forza Italia in primis—e
delle loro postazioni massmediatiche—dal ‘Giornale’ a ‘Mediaset’?

 A
mio avviso, alla base  di quel fallimento
sta il buon senso del supposto bacino elettorale di riferimento. I comunisti
avranno pure costituito una ‘chiesa’ secolare—come si diceva una volta, e non a
torto—ma si trattava di una chiesa sulla roccia,  ferma ai simboli fondativi, all’URSS, al
culto del Migliore, identificata da una cultura stabile, fatta di guide
spirituali, come  Antonio Gramsci, che
continuavano ad animare i dibattiti politici, filosofici e storiografici.
Dietro quella cultura vi erano cooperative, federazioni sindacali, leghe
contadine, reggimenti disciplinati di deputati, di senatori, di amministratori
locali, spesso di ottima qualità. Per molte  ’teste calde’ della rivoluzione parolaia, al
rinsavimento faceva seguito il ritorno in famiglia, in un ambiente angusto ma
strutturato, capace di strategie efficaci e di insediamenti capillari nella
società civile.

 Rispetto a questo ordine immobile cosa
offrivano i socialisti, privi (ante-Craxi) di una ‘cultura autonoma’, appagati
da posti di terza fila o di galleria, soddisfatti se in un ciclo di lezioni
tenute all’Istituto Gramsci qualche prestigioso intellettuale organico
riconosceva che, tutto sommato, Filippo Turati non era stato un social
traditore? Ricordo  con quale gioia,
negli anni settanta, un amico, esponente romano del PSI, a Genova, aveva
ottenuto la promessa di Dario Fo a tenere uno dei suoi spettacoli   a una Festa
dell’Avanti. Gramsci, Fo, Brecht, Visconti e in seguito persino Allende, Castro
e Guevara  erano divenuti le icone del
partito che tra Ottocento e Novecento aveva espresso tanta parte dell’aristocrazia
intellettuale italiana—da Alessandro Levi a Rodolfo Mondolfo! Queste
contraddizioni, è vero, non erano solo derivate 
da fattori sovrastrutturali legati alle zone alte del pensiero ma dalla
natura dell’elettorato socialista, divenuto sempre più col tempo, un elettorato
di opinione, di piccola borghesia professionale, composta spesso da gente che,
per dirla con Salvemini, aveva ricevuto un’istruzione superiore alla sua
intelligenza. Niente a che vedere coi nuovi ceti medi emergenti che solo Craxi
riuscì, per qualche tempo, a interessare alle sue strategie politiche,
cambiando  lo stile e il look della vecchia casa (ma solo in
apparenza giacché, in realtà, si trattava del felice ritorno, in un mutato
contesto, al socialriformismo d’antan—v.
il neodeamicisiano patriottismo socialista del garofano e la ricomparsa di simboli
da tempo dimenticati come Mazzini e Garibaldi).

 La fine della Prima Repubblica, con Craxi  ormai fuori gioco, lungi dal consigliare ai
socialisti di tener ferma la posizione riformista, li ha fatti ricadere
vittima—ma questa volta senza uno straccio di lungimiranti strategie—della
fascinazione movimentista e del nuovismo. Hanno fatto liste coi Verdi—che
avrebbero dovuto ricordar loro l’irreparabile errore del nucleare; si sono    legati mani e piedi ai radicali di Pannella,
dimenticando che Pannella e la
Bonino provengono da una cultura ontologicamente
antisocialdemocratica; non hanno esitato, per qualche poltrona di
sottosegretario o di viceministro, a sedere fianco a fianco col Grande
Inquisitore molisano, l’uomo che aveva distrutto il loro partito. Non
meraviglia, pertanto, se un Enrico Boselli, che in TV fa dell’antivaticanismo e
dello slogan ‘scuola pubblica!’( ripetuto tre volte), la sua decisiva risorsa
identitaria, susciti più pena che rabbia. Tanto più se si considera che, a
differenza del Lucignolo radicale, che ha trovato una sistemazione nel
veltroniano paese dei balocchi, il Pinocchio socialista è stato scaricato in
malo modo.

Si dirà: cosa poteva fare altrimenti? La
risposta non è poi tanto difficile. Invece di essere i pretoriani del governo
Prodi (in dissenso solo sui dico),
Boselli & C. avrebbero dovuto garantirsi uno spazio sia pur limitato, all’interno
di uno dei due schieramenti in competizione, e ivi lavorare a una nuova ideale che fosse il punto di incontro e di aggregazione dei   riformisti di ogni partito, da Luca Ricolfi a
Francesco Forte, da Daniele Capezzone a Luciano Cafagna, da Michele Salvati ad
Antonio Polito. (In fondo, la via indicata da Capezzone e demonizzata dai
kamikaze di  MicroMega). Ed invece il
segretario dello SDI –il cui viso triste sui manifesti elettorali sembra
quello di un impresario di pompe funebri–come Di Pietro, come Diliberto, come
Bertinotti, si sta accreditando come il nemico implacabile di ogni accordo tra
Veltroni e Berlusconi , non riuscendo neppure a sospettare quanto ormai stanno
comprendendo molti  italiani: e cioè che
il paese ha bisogno di poche drastiche riforme e che solo una coalizione alla
Merkel è in grado di farle, giacché né il centro-destra né il centro-sinistra
sono disposti, da soli, a lasciare all’avversario  la popolarità a buon mercato di chi a quelle
riforme ha detto no. Anche qui un estremismo gratuito, irragionevole, avvolto
in un’intransigenza ottusa. E, questa volta, in completa solitudine giacché, a
quanto pare, questi socialisti non li vuole nessuno e loro stessi non sono poi
così masochisti da suicidarsi nel mare
magnum
dell’ antagonista sinistra arcobaleno. ‘Che brutta fine!’ è proprio
il caso di dire.