Rete4, l’ultimo round di una storia infinita
28 Maggio 2008
Punto e a capo. E’ stato inutile il tentativo di Paolo Romani, sottosegretario alle Comunicazioni, di spiegare che l’emendamento al pacchetto di misure anti-sanzioni europee, che l’opposizione ha battezzato “salva Rete 4” (come già un precedente decreto legge), con l’emittente berlusconiana non aveva nulla a che fare: e che si trattava di una misura necessaria per non incorrere nelle ire definitive dell’Unione Europea. Inutile quello di Elio Vito di voler accogliere le obiezioni eccepite in aula da Michele Meta, deputato del Pd, riscrivendo in parte l’emendamento stesso. Nessuna spiegazione, nessuna correzione, nessuna apertura è valsa a smorzare le ire dell’antiberlusconismo redivivo, che ha condotto a un ostruzionismo tanto esasperato quanto ingiustificato. E così, come aveva anticipato Italo Bocchino, il governo ha infine annunciato che proporrà una nuova riformulazione, eliminando il contestato comma 3, quello sulla prosecuzione dell’esercizio degli impianti e sull’utilizzo delle frequenze; subito dall’opposizione si sono levati inni di giubilo, gridando impropriamente alla cancellazione dell’emendamento.
Difficile pensare che, grazie alla disponibilità della maggioranza, qualcosa in questa storia infinita cambierà. Sono decenni che la situazione del sistema radiotelevisivo italiano si regge su un complesso equilibrio di proroghe e controproroghe, che convalidano essenzialmente lo status quo. Si tratta di una pratica legislativa ormai quasi tradizionale, inaugurata già in epoca pre-berlusconiana e avallata tanto dai successivi governi di centrodestra quanto da quelli di centrosinistra. E non poteva essere altrimenti, dal momento che nel nostro paese la legge in tema di TV si è sempre ridotta ad inseguire l’esistente: sin da quando, alla fine degli anni Settanta, aveva inutilmente cercato di proteggere il monopolio della RAI e ostacolare l’apertura di un vero mercato, che nacque ugualmente in assenza di regole degne di questo nome. Tutto il resto è stata una conseguenza delle remore iniziali (come non ricordare la battaglia per l’introduzione della TV a colori, che in Italia avvenne perciò diversi anni dopo gli altri paesi europei?) e del vano tentativo di correre ai ripari.
Nella stessa situazione si radica anche la ragione per cui la diatriba intorno a Rete4 e Europa7 non è destinata a spegnersi: in questo caso si scontrano infatti due pretese a loro modo ugualmente legittime, quelle del mercato e quelle del diritto. La giurisprudenza italiana ed europea è stata concorde nel convalidare le istanze di Francesco Di Stefano, vincitore della gara per l’assegnazione delle frequenze nel 1999. D’altro canto, non si può dimenticare che le frequenze di Rete 4 furono acquistate anni prima su un mercato, sia pure uno che aveva sopperito alla latitanza legislativa organizzandosi in proprio; e che la rete fu rilevata alle soglie del fallimento, e riportata in auge a suon di investimenti. Negare questo dato, alla base della cosiddetta “occupazione di fatto” delle frequenze, significherebbe sostenere una logica da esproprio, non da pluralismo. Che l’acquisizione berlusconiana e il successivo rilancio possano non aver fatto piacere ad altri gruppi editoriali privati (alcuni dei quali, del resto, avevano già dato prova negativa di sé nel settore televisivo), è facilmente immaginabile; e forse la maturazione di questo malcontento non è estranea all’obiezione sulla concentrazione di tre reti nelle mani dello stesso proprietario, che condusse ai pronunciamenti della Corte Costituzionale del 1988 e del 1994. Ma non va dimenticato che fu un referendum popolare, nel 1995, a dire no al limite di un solo canale per ogni operatore televisivo. E infine, le stesse istituzioni italiane (Ministero delle Comunicazioni in primis) hanno in qualche modo tenuto conto dei diritti acquisiti (nel senso economico della parola), sin dal 1999, in epoca dalemiana: e hanno reagito ai pronunciamenti delle corti con autorizzazioni, proroghe e decreti legge che contraddicevano le loro stesse precedenti iniziative.
Nulla è cambiato da allora: e nulla cambierà, malgrado le riformulazioni della maggioranza e l’ostruzionismo dell’opposizione, che troverà sempre un motivo per gridare allo scandalo. L’unica vera svolta sarà assicurata dall’avvento definitivo del digitale terrestre, che libererà una quantità di frequenze sufficienti ad assicurare la trasmissione ai vari canali, e consentirà quindi nel contempo di riaprire il mercato. Ma lo switch-off, sul quale il ministero Gasparri con l’omonima legge aveva fortemente investito, e che era stato previsto da Landolfi per il 2008, è stato poi rinviato da Gentiloni fino al 2012. E con esso, la definitiva risoluzione di un dilemma che non cesserà di offrire facile appiglio a chi vorrebbe addossare tutti i mali italiani – quelli televisivi in primis – sulle spalle di uno solo.