Riaprire un’attività non è un gioco. Risparmiateci la riffa, per pietà.
04 Gennaio 2021
Volendo dar credito ai bollettini di giornata – corroborati dalle contraddittorie esternazioni dei componenti della maggioranza, del governo e degli svariati organismi tecnici dei quali s’è perso il conto – l’orientamento a stamattina (lunedì 4 gennaio) parrebbe il seguente: oggi arancione, 5 e 6 rosso, 7 e 8 giallo ma non troppo, 9 e 10 di nuovo arancione, poi per cinque giorni si vedrà ma intanto cambieranno (in senso restrittivo) i parametri per l’attribuzione dei colori e dieci regioni saranno di nuovo a rischio, nel frattempo potrebbe essere istituita una zona bianca per quelli bravi, ma nulla è ancora deciso. Il 6 sera forse sapremo cosa fare l’indomani, ma solo fino al 15 perché per allora uscirà un nuovo Dpcm. Nel frattempo scopriamo che la scuola e i trasporti sono luoghi sicurissimi mentre al ristorante il Covid è assicurato, tipo portata fissa nel menu. Però tranquilli: a due a due si potrà ancora far visita ad amici e parenti. Sempre entro il coprifuoco, beninteso, sul cui orario s’è riaperta la discussione.
A meno di ritenere che per riavviare un’attività dopo un lungo periodo di fermo sia sufficiente girare la chiave in una toppa, alzare una saracinesca e schioccare le dita ai dipendenti, l’ennesima riffa sulle riaperture, questa volta post-natalizie, avrebbe dovuto essere risparmiata a un tessuto produttivo già stremato. E invece ancora una volta il copione sembra ripetersi: le promesse prima, le interviste dei virologi durante, la cacofonia delle indiscrezioni e delle dichiarazioni nell’imminenza del dopo, e nel mezzo – vasi di coccio in un mare in tempesta – piccoli imprenditori ed esercenti che non sanno dove sbattere la testa. Perché spesso la riattivazione di una struttura è affare complesso che richiede un’attenta pianificazione (soprattutto se agli adempimenti ordinari si aggiungono norme stringenti di sicurezza sanitaria) e, come già osservato più volte su questo giornale, in certi casi l’incertezza rischia di fare ancora più danni del lockdown.
Per non parlare di quella che oggi è più di una sensazione, è un dato di fatto conclamato: l’incapacità di attrezzare il fronte sanitario e gestire i settori pubblici nevralgici scaricata ancora una volta sulle spalle delle categorie più esposte. E se fino a qualche tempo fa l’inesistenza di una correlazione tra andamento dei contagi e funzionamento dell’economia di prossimità – bar e ristoranti su tutti – era un’impressione suggerita dal buon senso, oggi, dopo una prolungata chiusura, è un’evidenza dotata di granitica oggettività.
Piuttosto che continuare a investire a oltranza di nuovi poteri e responsabilità super-commissari che hanno già dato prova di palese inadeguatezza (ne parleremo più diffusamente nei prossimi giorni), le massime autorità governative e istituzionali dovrebbero interrogarsi sul fatto che anche uno dei più inflessibili esponenti dell’ala “rigorista”, ma dotato di indubbia pragmaticità e di una spiccata capacità di percezione di dove stia andando il Paese, come il ministro Franceschini, stando ai retroscena di giornata avrebbe suggerito l’introduzione, accanto alle misure di contenimento, di “zone bianche” laddove la situazione sanitaria lo consenta. Nessuno intende minimizzare, anche perché la situazione degli altri Paesi europei non lo permette. Però almeno ci sia risparmiata la riffa e ci si renda conto che l’Italia è allo stremo.