Ricominciamo da 7. Dalle Regionali la sfida per un Centrodestra nuovo
02 Maggio 2015
di Andrea Spiri
«La politica non è una partita di RisiKo, né a livello locale né tantomeno sul piano nazionale. Qui non si tratta di piazzare dei carri armati su una cartina geografica, ma di guidare un processo avendo in mente una visione, senza determinismi e quindi senza la pretesa di piegare la realtà ai propri voleri. Non perdendo mai di vista dove stai andando».
Ecco, appunto, e voi dove volete andare?
«Intanto mi faccia aggiungere che se questa è la nostra idea della politica, possiamo dire di aver fatto un buon lavoro».
In che senso?
«Abbiamo innescato un processo che ci porta a guardare oltre Ncd senza disperdere quello che il nostro partito è stato: lo strumento col quale si è consumato un doloroso distacco nel momento in cui nel vecchio centrodestra hanno prevalso le spinte regressive che avrebbero portato le logiche di parte a prevalere sul bene comune».
Non ricominci con la storia della Forza Italia che segna un ritorno indietro rispetto al Pdl.
«Non è certo mia intenzione tediarla, ma almeno mi darà atto che quanto accaduto quest’anno ci ha fondamentalmente dato ragione. E l’atteggiamento del partito di Berlusconi sulle riforme ne rappresenta la prova evidente: si passa dal voto favorevole alle barricate sullo stesso provvedimento a seconda di quale sia la convenienza tattica del momento, senza porsi il problema di ciò che serve o non serve al Paese».
È il primo maggio, sede nazionale del Nuovo Centrodestra. Per la gioia dei collaboratori, Gaetano Quagliariello anche oggi è seduto alla sua scrivania di coordinatore. Appare in gran forma, la battuta sempre pronta, il telefono che squilla in continuazione, le lamentele non appena si rende conto che un sito web dedicato al Napoli calcio è stato modificato senza che lui ne fosse messo al corrente, un occhio all’agenda per la campagna elettorale nelle sette Regioni chiamate al voto che rischia già di farsi complessa: «Ci metterò tutta l’energia possibile», esclama a mò di minaccia. È passato poco meno di un anno dall’ultima intervista all’Occidentale, quando commentò insieme a noi l’ingresso di Ncd in Europa passando dalla porta principale: quorum raggiunto, impresa straordinaria per una forza politica che solo cinque mesi prima aveva emesso il suo primo vagito, mentre tutti intorno erano concentrati sugli effetti dello tsunami renziano.
Nel frattempo cosa è cambiato?
«Quel nucleo duro ha retto anche in condizioni difficilissime, perché tenere in piedi un partito giovanissimo, l’unico a non godere di un euro di finanziamento pubblico, è letteralmente un’impresa. Sono orgoglioso di poter dire che in questi dodici mesi si è anche avviata un’opera di selezione all’interno della classe dirigente, sia a livello nazionale che locale. Ai blocchi di partenza c’è ora una classe dirigente nuova dalla quale ripartire».
Ncd ammaina la sua bandiera?
«Non la metterei così. Direi piuttosto che al nucleo originario si è aggiunto qualcosa di importante: in prospettiva un progetto nuovo per dar voce ai tanti che non si rassegnano all’idea che la politica italiana ruoti intorno al bipolarismo “Matteo contro Matteo”».
Il riferimento è alle prossime regionali. In effetti di movimenti tenuti a battesimo ce ne sono diversi.
«Dal Carroccio si è staccato Flavio Tosi, e sbaglieremmo a considerarlo soltanto un fenomeno circoscritto alla sua Regione. Tosi rappresenta quell’anima leghista che aveva assorbito a partire dagli anni Novanta – in Veneto ma anche nelle valli lombarde – un cattolicesimo esistenziale ancor prima che politico, nutrito dunque di una spontaneità popolare e anche di una durezza che però non è mai stata estremismo. Nelle Marche, Gian Mario Spacca col suo movimento “Marche 2020” rappresentava un elemento di peculiarità nel rapporto tra il mondo cattolico-popolare, produttivo, imprenditoriale, e la sinistra che decretandone di fatto l’espulsione ha testimoniato la volontà di sottomettere anche questa Regione a un modello egemonico tipo Toscana ed Emilia. In Puglia la coalizione che sostiene Francesco Schittulli è il segno di una vicenda emblematica: lì è entrato definitivamente in crisi il rapporto tra Silvio Berlusconi e Raffaele Fitto, e anche colui che più di ogni altro ci aveva attaccato ai tempi della nascita di Ncd ha dovuto sperimentare come la chiusura di Forza Italia non avrebbe sopportato nessuna iniziativa e nessuna “deviazione”, nemmeno a livello regionale».
Componiamo questo puzzle delle regionali.
«Io credo che noi non siamo stati solo partecipi di questi processi e di altri analoghi, ma per certi versi li abbiamo addirittura provocati. Se guardiamo al dato complessivo, è significativo che in cinque Regioni su sette a guidare le coalizioni di cui facciamo parte siano uomini che potrebbero diventare attori importanti di un nuovo progetto, che in queste elezioni abbiamo chiamato Area Popolare ma che per compiersi ha bisogno in futuro di allargarsi ulteriormente e magari di trovare anche un altro nome e un altro simbolo».
Quindi andare oltre il rapporto con l’Udc.
«È evidente che in questo processo di aggregazione di una nuova alternativa che risponda alle caratteristiche di un sistema e di un’agenda politica anch’essi nuovi, l’unione con gli amici dell’Udc è un passo importante ma non sufficiente. Ha detto bene lei, occorre andare oltre».
In Liguria però girava voce di un vostro sostegno alla candidata del Partito democratico.
«In nessuna regione abbiamo fatto alleanze con la sinistra. In sette regioni su sette siamo alternativi al Pd. Non si tratta di una scelta ideologica, ma di un dato che discende anche dalle contraddizioni irrisolte del partito di Renzi. Forse si sarebbe potuto fare qualcosa di diverso in Liguria, dove i democratici sono spaccati – un candidato riformatore, e un altro “identitario” –, ma il prezzo da pagare sarebbe stato quello di camuffarci e nasconderci, sottomettendoci a un accordo senza la dignità di una logica di coalizione. Improponibile».
Atteggiamento poco chiaro, il loro?
«Con un occhio anche al quadro nazionale, penso che queste elezioni rappresentino una svolta per il Nazareno: Renzi ha la possibilità di rafforzare il tratto riformatore del suo partito, correndo il rischio di rompere con la parte più “identitaria”, oppure salvare l’unità della “ditta”, diventando una sorta di partito-Stato. Da questa scelta dipende non soltanto il futuro del Pd, ma anche quello del sistema partitico italiano. Quello che vorrei fosse evitato, se mi è consentito un suggerimento non richiesto, è pensare di risolvere il problema privilegiando la prima logica a livello nazionale (vedi il discorso sulle riforme) e la seconda sui territori. Ho l’impressione che proprio questo stia avvenendo: nelle Regioni chiamate al voto si è ricercata un’unità della sinistra che andasse al di là dello stesso Pd recuperando anche Sel. Sul lungo periodo le due logiche sono destinate a collidere».
Intendiamoci: Giovanni Totti è stato un ripiego?
«Assolutamente no. La verità è che abbiamo intessuto rapporti spingendoci fino a Forza Italia, ben sapendo che anche lì c’è una contraddizione irrisolta ed è necessario scioglierla: contribuire alla costruzione di un’alternativa nel sistema o divenire il predellino su cui si issa Salvini. A noi andare a rimorchio del lepenismo in salsa italiana certo non interessa».
Mentre lei parla, io non riesco a capire perché in ogni Regione presentate un simbolo diverso.
«Se è vero tutto ciò che abbiamo detto, siamo nel pieno di una trasformazione creativa, dalla quale deve maturare un nuovo progetto, una nuova classe dirigente, devono farsi strada volti che oggi la politica non conosce. I simboli diversi sono una narrazione di quello che è accaduto, e quindi tocca a noi essere in grado di utilizzarli appunto per raccontare. In ogni simbolo è presente la dicitura “Area Popolare”, ma non solo. In Umbria, “AP” compare in un simbolo dominato da “Per l’Umbria Popolare”, e questo perché si tratta della prima regione che ha innescato questo processo. Quel contrassegno – l’unione del nostro partito con il movimento civico creato da Claudio Ricci – girava sui pulmini in una campagna elettorale povera partita un anno fa, che ha inaspettatamente condotto alla vittoria a Spoleto e a raggiungere il ballottaggio a Foligno. Poi ci sono i simboli di Marche e Puglia, dove “Area Popolare” si ibrida e si ingrandisce grazie all’alleanza con i movimenti locali dei candidati presidenti, Spacca e Schittulli. Quello della Toscana è ancora diverso: rappresenta la difficile scommessa di una rete civica e di un uomo, Giovanni Lamioni, che aderisce al nostro progetto per passione autentica, portando con sé il bagaglio importante dei corpi intermedi».
In Veneto e in Campania ricompaiono i simboli di partito.
«Per due ragioni differenti. In Veneto si tratta di una sfida, perché una destra vecchia ed estremista ci aveva chiesto di ammainare quei simboli. Altrove lo abbiamo fatto per scelta e per ragionamento politico, ma se ci viene imposto rispondiamo picche. Quanto alla Campania, lì la lista Ncd-Campania Popolare si farà carico di raccogliere tutti i propositi, le attese, le speranze di quanti ritengono che l’esperienza Caldoro possa essere ricondotta nell’alveo di una nuova stagione del centrodestra, rappresentando un ponte tra il vecchio e il nuovo».
Ha dimenticato la Liguria.
«Si sbaglia, l’ho tenuta volutamente in coda. Il simbolo più chiaro e puro. E non è un caso che verrà presentato proprio in quella Regione dove avrebbero voluto che Area Popolare si confondesse, si pasticciasse. In parole povere, che non ci fosse».