Ricorderemo il Rev. Moon soprattutto per la sua strenua lotta al comunismo

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Ricorderemo il Rev. Moon soprattutto per la sua strenua lotta al comunismo

04 Settembre 2012

Sun Myung Moon, il padre-padrone della Chiesa dell’Unificazione, è morto. Diceva che in gioventù gli era apparso Gesù, incaricandolo di portare a termine la sua missione, preparandone la seconda venuta. Più che un “messia”, insomma, si sentiva una sorta di “pontefice”. Ma a lui, in virtù di quella visione giovanile, il cristianesimo ortodosso non andava giù, e così ne fondò un altro tutto suo.

Ora, la sua strampalata teologia va lasciata ai teologi. Sulle nozze tra il vescovo zambiano, già cattolico e poi scomunicato, mons. Emmanuel Milingo e la coreana Maria Sung, avvenute e celebrate dentro il movimento di Moon con la benedizione di Moon in persona, si è già sagacemente pronunciata a suo tempo e definitivamente la Chiesa Cattolica, cui compete la vicenda Milingo (non ovviamente la vicenda Moon). La puntigliosa disamina del movimento, delle iniziative  e dei guai giudiziari di Moon la forniscono gli specialisti di nuovi movimenti religiosi, in capo a tutti il sociologo Massimo Introvigne, probabilmente il più lucido esperto mondiale della Chiesa dell’Unificazione. Ma c’è un aspetto qualificante del transito terreno di Moon che non è possibile lasciare al tritacarne del relativismo imperante o alla sin troppo facile ironia che i “matrimoni di massa” cari alla sua “setta”, le credenze della sua Chiesa e i destini del suo “impero finanziario” scatenano.

Il reverendo Moon è stato un infaticabile e tetragono cold-warrior, uno di quegli uomini che si sono spesi anima e corpo per la causa della benemerita lotta al comunismo internazionale.

Una delle realtà maggiori e più articolate cui Moon ha dato vita per questo scopo, a New York, nel 1980, si chiamava significativamente CAUSA Foundation. Ne resiste ancora il sito web (e qualche altra traccia si trova anche altrove su Internet), che celebra con enfasi il ruolo svolto per decenni da Moon nel propiziare la caduta del comunismo mondiale: è un tipico esempio di culto della personalità, ma, fatta la tara, le cose ivi scritte sono importanti, e pochi le conoscono.

Causa fu del resto anche un bel periodico patinato prodotto in più lingue che della formazione permanente fece un obbligo morale: formazione anticomunista soprattutto, ma così profondamente svolta da volere spesso e volentieri indagare anche tra le radici remote del disastro ideologico del marxismo-leninismo e ideocratico del bolscevismo. Fu infatti dalle belle pagine di Causa (da conservare come una “reliquia laica”) che molti di noi seppero per esempio dell’esistenza di quell’allora oscuro storico bretone, bistrattato in patria e alla Sorbona, Reynald Secher, il quale aveva in mano le prove provate del primo genocidio della storia, quello commesso dai giacobini in Vandea, e su cui in sede di tesi di dottorato avanzato scrisse centinaia di pagine capaci di scuotere la Francia da capo a piedi (e che poi un Jacque Chirac di allora, ben diverso cioè da quello di dopo, volle persino in mostra a Parigi, allorché fu sindaco di quella città).

Moon nutriva le sue opinioni lunatiche sul cristianesimo, ma Lee Edwards ‒ uno dei più fulgidi cronisti del mondo conservatore statunitense, attivista conservatore lui stesso per anni in prima fila, oggi Fellow di gran spolvero alla prestigiosa Heritage Foundation di Washington ‒, in una intervista concessami più di un decennio e mezzo fa, la prima volta che c’incontrammo, mi tessé le lodi dei “moony” (come sono chiamati i seguaci del reverendo) i quali lo avevano assunto con contratto giornalistico lasciando, a lui cattolico, massima libertà di azione e di opinione.

Il periodico a cui Edwards faceva riferimento era The Washington Times, il quotidiano conservatore che nella capitale federale statunitense si legge ancora con profitto. Gli americani attenti ricordano del resto ancora pure il periodico The World & I, edito dal medesimo gruppo a partire dal 1986, un migliaio di pagine mensili con tutto e di più, fotografie stupende e servizi sontuosi. Pubblicò cose le più disperate, quasi la sua divisa fosse onorare comunque e sempre il bello, il vero e il giusto; ma poi c’erano le sezioni ad hoc, irte delle firme più prestigiose del conservatorismo “neo” e “paleo” ai tempi della presidenza Reagan, da Robert Nisbet a Paul Gottfried a Russell Kirk, da George Gilder a Robert Royal a Grover Norquist. Ora quella messe enorme sopravvive e anzi continua come grandiosa risorsa in abbonamento online dentro una struttura web pensata, guarda un po’, per quella cosa fondamentale per ogni civiltà davvero democratica (e infatti da noi e in Germania è fuorilegge) che è l’homeschooling.

L’anticomunismo di Moon bordeggiò quello statunitense sin dai tempi della presidenza di Richard Nixon, che ne riconobbe pubblicamente le benemerite battaglie culturali e politiche, ma l’apoteosi fu l’indimenticata stagione di Ronald Reagan e dei suo freedom fighter che nel mondo si battevano per la libertà vera e intera.

Il futuro reverendo Moon, del resto, il comunismo e il suo brutto ceffo li conosceva davvero. Nato a Cheong-Yu, in Corea, nel 1920, in una famiglia confuciana convertitasi poi al presbiterianesimo, cominciò a predicare il suo credo nuovo in quella che nel frattempo era diventata la Corea del Nord comunista. Per questo finì in carcere nel 1946, liberato solo nel 1950 dall’avanzata delle truppe statunitensi durante la Guerra di Corea. Fu lì che conobbe dolore e torture.

C’è chi dice che l’anticomunismo non è sufficiente. Però è un inizio indispensabile.