Ridurre le tasse? Ma quando mai, dare più soldi alla Rai

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Ridurre le tasse? Ma quando mai, dare più soldi alla Rai

27 Dicembre 2015

In Italia la questione del taglio delle tasse si apre solo se il presunto taglio è finanziato con la lotta all’evasione, e mai con riduzioni della spesa, nonostante i numerosi esperti che si sono occupati di spending review, stilando rapporti regolarmente ignorati. Ed è sempre nell’ottica del recupero dell’evasione che da qualche mese ci stanno presentando l’ormai vigente norma sul canone Rai in bolletta.

 

Inizialmente, la legge di stabilità prevedeva di destinare l’extragettito (circa 500 milioni all’anno) al fondo per la riduzione delle tasse,come sarebbe giusto e logico in un paese dove le tasse massacrano imprese e cittadini, frenando la ripresa. Peccato che poi si sia deciso, attraverso un emendamento del Governo, che le “eventuali maggiori entrate” rimarranno alla Rai per il 67% nel 2016 e per il 50% negli anni successivi. Il resto sarà destinato all’esenzione del pagamento per gli ultra settantacinquenni (i maggiori, se non gli unici, fruitori del servizio!).

 

Insomma dei 500 milioni che affluiranno nel 2016, 335 andranno alla Rai (dal 2017 in poi, 250) per un contributo pubblico che sarà superiore ai 2 miliardi di euro. Premesso che, come già è stato fatto notare da più parti, si tratta di una imposta occulta, che da Assolelettrica a Federconsumatori e Adusbef hanno giudicato come “un pasticcio illegale”, in quanto, dal punto di vista del diritto tributario, la tariffa è una prestazione patrimoniale in cambio di un servizio (l’elettricità) che ha davvero poco a che fare con la programmazione Rai. Ora, senza contare che il canone è una vera e propria tassa sul possesso d’un apparecchio televisivo di qualunque tipo, e che non è compito delle società elettriche riscuoterlo, ma la Rai ricopre davvero il ruolo di servizio pubblico? Qualcuno ne sente il bisogno?

 

Nel 1923 la Bbc si definisce public utility, pronta a subire l’idealizzazione dell’educazione delle masse informando e intrattenendo, per diventare nel 1927 società pubblica che gode di un monopolio. In Italia la Rai prende il posto dell’Eiar e nel 1946 il servizio pubblico rappresenta lo strumento per rafforzare i miti fondativi della Liberazione e della Costituzione. Il concetto di servizio pubblico nasce, così, in quel mito civile e pedagogico delle tele e radio comunicazioni di comunista, fascista e nazionalsocialista memoria. E non è infatti un caso che una nazione come quella statunitense (la right nation) non abbia mai partorito qualcosa che assomigliasse al servizio pubblico, non avendo mai conosciuto un regime totalitario, neppure se di nome democratico.

 

Oggi tutto ciò non suona anacronistico, non è forse vero che non abbiamo più bisogno della tv per imparare a leggere e scrivere? Si tratta solo del residuo di un’epoca in cui, come ha già fatto notare Pierluigi Battista, avere un apparecchio era un privilegio, ma soprattutto, “l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di stato se la scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria”.

 

Il balzello odioso della Rai è figlio della solita idea di fondo: lo stato ha il diritto di sottrarci parte delle nostre risorse allo scopo di finanziare bene “pubblici” che in caso contrario non esisterebbero. Ancora una volta sfruttati e senza libertà.