Riduzione dei parlamentari e giacobinismo di Stato
15 Giugno 2012
di redazione
Il numero dei parlamentari nazionali è fissato dalla Costituzione. Proprio per renderne più rigida e meno flessibile la modifica: cioè per sottrarlo alle prepotenze di maggioranza. Sennonché da qualche tempo in Italia quella "maggioranza morale" tendenzialmente totalitaria, che si riconduce alla cosiddetta società civile e che è, invece, espressione di autentica società incivile, vorrebbe che una riduzione del numero dei parlamentari, se proprio non si può fare per decreto legge, fosse da ritenersi l’unico argomento di politica costituzionale rispettabile e condivisibile.
Con le nobilissime eccezioni dei Senatori Bonino, Perduca, Poretti, è accaduto così che nell’Aula del Senato in tema di riforma del parlamento e della forma di governo molti interventi si siano esercitati intensamente su come, quanto e perché la rappresentanza nazionale debba essere numericamente contenuta e (se ci si riesce) concettualmente abbattuta.
Le commissioni, le delegazioni parlamentari alle assemblee internazionali, le bicamerali d’inchiesta e così via, insomma, i diversi momenti di parlamentarismo, sono rubricati "costo della politica". Mentre posizioni di inutile e torbido sottogoverno municipale, provinciale sono graniticamente presidiate dal titolo V della Costituzione e nessuno osa mancare ad esse di rispetto (e forse pure d’affetto). Sul numero di deputati e senatori ogni riformismo ha ormai diritto a illimitato uso di furore giacobino.
di Luigi Compagna