Riforma delle pensioni: resta incompiuta la scelta di ‘opting out’
27 Dicembre 2012
Con l’interruzione della XVI legislatura è divenuta incerta la sorte del regolamento, predisposto dal ministro Elsa Fornero, che avrebbe dovuto realizzare l’armonizzazione tra le nuove regole introdotte dalla riforma del 2011 e quelle vigenti in taluni regimi particolari (Forze Armate, Polizia, Settori dello spettacolo, ecc.). Le linee generali dello schema preliminare sono state illustrate dal ministro stesso in occasione di audizioni appositamente convocate, tanto al Senato quanto alla Camera, ma il testo non è mai pervenuto in modo ufficiale, in attesa del parere del Consiglio di Stato.
Lo schema era circolato ugualmente, recante vistose correzioni apportate dal Consiglio dei ministri rispetto al testo predisposto. La materia, infatti, era fortemente vigilata dai gruppi parlamentari (al Senato era stata votata persino una mozione bipartisan a salvaguardia della specificità dei militati e delle Forze dell’Ordine). Anche perché l’irrigidimento (per quanto modesto) dei requisiti finiva per entrare in contraddizione con il piano di riordino della “strumento militare” , predisposto dal Governo e approvato dal Parlamento, in cui sono previste, all’uopo, anche misure di prepensionamento.
Come è noto, il regolamento, una volta acquisito il parere del Consiglio di Stato, potrebbe essere sottoposto all’esame delle Commissioni parlamentare (per l’espressione del prescritto parere obbligatorio non vincolante) anche a Camere sciolte. Per ora però non vi sono notizie in proposito.
Ci sono altri aspetti – di natura programmatica – inclusi nella riforma Fornero che non hanno avuto esecuzione (a causa forse dell’impegno profuso sul tema dei c.d. esodati). Era sfuggita all’attenzione dei commentatori, più interessati agli aspetti di eccessiva severità, in materia di pensioni, contenuti nell’articolo 24 del decreto legge dell’Areopago che governa il Paese. La novità era inserita in una norma, il comma 28, che affidava ad una Commissione di esperti incaricata di proporre, entro il 2012, possibili ulteriori forme di gradualità nell’accesso al trattamento pensionistico con il metodo contributivo. L’ultimo periodo del comma stabiliva che, entro il termine suddetto, fossero analizzate “eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni”. Era questa un’altra idea che la professoressa Elsa Fornero aveva prestato al ministro Elsa Fornero. Sul piano tecnico il procedimento è definito di opting out . Elsa Fornero pubblicò persino un importante saggio su questo argomento corredato di una proposta compiuta (lo storno di una quota fino all’8% dell’aliquota contributiva), insieme al suo maestro Onorato Castellino, il primo studioso che lanciò l’allarme pensioni alcuni decenni or sono. In che cosa si sostanzia l’idea?
Si tratta di consentire ad un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del tfr per aderire ad un fondo), di destinare al finanziamento di una forma di previdenza complementare una parte della sua contribuzione obbligatoria. Potrebbe in questo modo, se lo riterrà, distribuire il proprio rischio previdenziale su di una quota pubblica a ripartizione e una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori oneri (l’esperienza pratica dimostra che i giovani non si accostano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie). Mediante le soluzioni di opting out si otterrebbe certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe possibile ottenere rendimenti più generosi sui mercati.
L’operazione non è semplice e contiene qualche rischio, tanto che la norma prevedeva un’azione di concerto con gli enti gestori di previdenza obbligatoria e con le autorità di vigilanza operanti nel settore della previdenza. Occorrerebbe comunque del coraggio e della fiducia nelle proprie convinzioni per immaginare che qualcuno, dopo i saliscendi dei mercati finanziari, possa scegliere di investire nel privato risorse destinate al sistema pubblico. Anni or sono, il Cnel rimise a punto una posizione sulle proposte di opting out che, negli ultimi tempi, hanno arricchito il dibattito sul futuro del sistema pensionistico. Il giudizio complessivo, tuttavia, rimane critico per tanti motivi, meticolosamente spiegati. In sostanza, i progetti sono interessanti, ma difficilmente praticabili; le loro controindicazioni bilanciano, in senso negativo, gli spunti di “verità” che essi contengono. In estrema sintesi, l’ipotesi a suo tempo avanzata da Castellino e Fornero – ad avviso della Commissione del Cnel – oltre ad essere onerosa per i conti pubblici, avrebbe creato due distinti modelli sulla base dell’iniziale opzione volontaria con effetti non positivi sul mercato del lavoro.
Un altra proposta, molto in voga a suo tempo, presentata da Modigliani e Ceprini, si fondava, invece, su di un presupposto tutto da dimostrare – come il conseguimento di un tasso di rendimento reale annuo del 5-6% – e sulla concentrazione, in capo ad un’agenzia pubblica, di un ammontare tanto consistente di risorse “capitalizzate”, da produrre conseguenze distorsive sui mercati finanziari. Sembrava, invece, a parere del Cnel, maggiormente percorribile l’idea, suggerita da Gianni Geroldi, di coniugare ripartizione e capitalizzazione, sullo zoccolo di un prelievo contributivo obbligatorio, allineato intorno all’aliquota del 23 per cento, sia per i lavoratori dipendenti che per quelli autonomi. Ma queste elaborazioni appartengono purtroppo ad una stagione di speranze andate deluse e superate da una realtà che si è mossa in senso differente.
Val la pena, tuttavia, di sottolineare taluni aspetti della discussione che altrimenti rischiano di restare nell’ombra. Alla previdenza complementare, per tante ragioni, è stata affidata una funzione modesta nell’economia dei trattamenti complessivi. E, fino ad ora, tutti i tentativi di ampliare l’ambito di intervento della “capitalizzazione all’italiana” si sono infranti miseramente contro l’eccessiva onerosità del sistema obbligatorio, che nessuno, fino ad ora, ha potuto, voluto o saputo ridimensionare in modo adeguato. Parimenti, non è casuale che tutte le proposte di opting out prendessero le mosse (sia pure in termini e tempi diversi) dall’esigenza di ridurre le aliquote contributive della ripartizione, allo scopo di consegnare risorse alle forme di capitalizzazione (e di favorire, nel contempo, lo sviluppo e l’occupazione).
L’impegno culturale della proposta contenuta nel comma 28 meritava dunque di essere apprezzato, proprio perchè il Governo Monti aveva impresso una svolta nel settore della previdenza, sia pure con il difetto di una inadeguata considerazione della fase di transizione. In sostanza, anche per gli architetti delle nostre pensioni vigono criteri analoghi a quelli riguardanti la costruzione degli edifici. Non si parte dal tetto, ma dalle fondamenta. Così, oggi, si sarebbe potuto destinare ai fondi pensione a capitalizzazione non solo il solito Tfr tappabuchi, ma anche il montante corrispondente ad alcuni punti di aliquota contributiva (in caso contrario l’onere congiunto del sistema pubblico e di quello privato diverrebbe ancor più insostenibile) proprio perché sono state individuate, contestualmente, un insieme di misure capaci di ridurre la spesa pensionistica in quantità tendenzialmente equipollente al contenimento del prelievo. Altrimenti, si sarebbe incrementato soltanto il disavanzo. Ma tutto ciò è rimasto sulla carta.
Tratto da amicimarcobiagi