Rigore e candore di Edoardo Sanguineti, poeta del marxismo che fu
18 Maggio 2010
Per il suo rigore e la coerenza intellettuale, così dicono, Edoardo Sanguineti è uno di quegli avversari a cui va reso l’onore delle armi. Perché tutto ei provò e sperimentò, da Lacan alla poesia pop, dalle costituenti rivoluzionarie degli anni Sessanta – il Gruppo ‘63 – all’ebrezza di correre per la poltrona di sindaco di Genova (qualche anno fa prese il 14% con Rifondazione e l’estrema sinistra). Poeta, professore universitario, critico letterario. Ideologo del linguaggio, incallito esegeta di Marx e teorico di una estetica marxista. Deputato del Pci poco prima che finisse il comunismo.
Era quel che si dice un “chierico organico”, una delle teste pensanti del Partito, ma obliquo e curioso dei pregi derivanti da una vita normale e banalissima, in debito con Gozzano e i crepuscoli borghesi. Capace di vilipendere il sacrificio dei ragazzi (“ragazzetti”) di Tien An Men ma anche di far uscire dalla ridotta culturale in cui si è cacciata la poesia italiana, incontrandosi faccia a faccia con la realtà (ogni volta che gli sperimentatori vogliono rompere il linguaggio classico per far parlare la realtà, però, si tarpano le ali descrivendola senza usare gli strumenti del reale, e condannandosi quindi all’incomprensibilità).
Così anche noi, alle prese con l’impellenza coccodrillesca che agita le pagine di cultura dei giornali di oggi, ci sforziamo di “ripercorrere la sua opera”, come si dice a scuola. Da Artaud a Pound, passando per Dante (il “Dante reazionario”) – Sanguineti viene letto e studiato in ogni dipartimento di italianistica che si rispetti: in Italia, principalmente all’Università di Bologna, che ha prodotto non pochi adepti del vate. Con lui diamo l’estremo saluto all’avanguardia, a un modo un po’ lobbistico ed “entrista” di fare poesia, occupando posti di potere, monopolizzando case editrici e cattedre universitarie, producendo quella che una volta si chiamava “egemonia culturale” e che oggi non c’è più, almeno a sinistra.
C’è un primo Sanguineti e un secondo Sanguineti. Il primo è quello dei labirinti enigmatici ed inconsci, il poeta “difficile” che riutilizzava il linguaggio quotidiano per fare una parodia onirica del consumismo, dei rapporti uomo-donna, di quelli tra individuo e istituzioni nella soffocante società liberale (sic). Gli anni Sessanta, la grande trasformazione della società italiana che andava raccontata tramite l’assemblage e la scrittura automatica (Artaud più Burroughs, sai che casino).
Il secondo Sanguineti è invece molto meno conosciuto del primo, più disposto a tollerare l’ordine (del linguaggio): la prosa poetica non è più solo una prigione della forma ma può anche farsi approccio ludico alla vita, ma qui stiamo esagerando con il disimpegno. Di questa seconda fase vale la pena citare una manciata di versi tratti da Postkarten, diario in versi pubblicato da Feltrinelli nel ’78: “la poesia è ancora praticabile, probabilmente: io me la pratico, lo vedi/ in ogni caso, praticamente così:/ con questa poesia molto quotidiana (e molto/ da quotidiano, proprio); e questa poesia molto giornaliera (e molto giornalistica/ anche, se vuoi)…”.
Parlantina sciolta, che anticipa la voga degli slam di questi ultimi tempi: oggi i poeti sono sempre più avvezzi a salire sul palco per declamare e farsi acclamare piuttosto che dedicarsi anima e core agli ‘studi matti e disperatissimi’. Era proprio un grande borghese, un vero comunista, Edoardo Sanguineti. Maestro nel giocare d’azzardo con il mercato culturale, senza farsene sopraffare. Almeno fino a quando non è caduto il Muro di Berlino, l’Unione Sovietica si è dissolta, il Pci si è riconvertito in Pds-Ds-Pd, e a lui, oltre a Rifondazione (quella di Ferrero, non quella movimentista di Vendola) è rimasto solo il salotto di Fabio Fazio.