Rileggere Foucault e la rivoluzione iraniana

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Rileggere Foucault e la rivoluzione iraniana

13 Gennaio 2008

Per Rizzoli esce ora l’edizione italiana
di Teheran 1979-1981. La prima battaglia
degli Stati Uniti contro l’Islam
di Mark Bowden, noto giornalista e
scrittore americano che insegna al Loyola College (Maryland), già autore di Black Hawk Down, in cui si racconta
quanto avvenuto in Somalia nel 1993
in ordine al fallito tentativo americano di catturare il
signore della guerra Mohamed Farrah Aidid, libro da cui, nel 2001, Ridley Scott
ha tratto la pellicola omonima.

Ma riflettere sulla rivoluzione
khomenista in Iran è ben altra cosa dall’indagare le vicende di un semplice
insuccesso militare americano all’estero; alla fine degli anni Settanta, in
quel glorioso paese che era stata la Persia, si è istaurata infatti la prima
repubblica islamica accesamente anti-occidentale e programmaticamente votata
all’espansionismo ideologico, quasi a delineare un paradigma poi divenuto di
scottante attualità. Certo, si devono fare le dovute precisazioni: il
radicalismo islamico iraniano era ed è di origine sciita, confessione
maggioritaria solo in quel paese e nel vicino Iraq, mentre la più parte del
mondo islamico (quasi il 90%) è di rito sunnita; l’ondata islamista che ha
prodotto l’11 settembre è espressione del sunnitismo ed è legata ad altri
referenti culturali e politici localizzati nell’area araba (fra cui si devono almeno
citare, da un lato, il Wahhabismo,
movimento teologico sorto in Arabia Saudita nel XVIII secolo e,
dall’altro, l’organizzazione dei Fratelli mussulmani, nata in Egitto negli anni
Trenta, la prima formazione politica di un certo impatto fra quelle d’ispirazione
teologica).

Ciò detto, non si può negare però
che quanto avvenuto in Iran alla fine degli anni Settanta conservi un valore
paradigmatico, almeno dal punto di vista simbolico. Non è forse privo
d’interesse quindi l’analizzare la copertura mediatica che quell’evento ebbe in
Occidente, per misurare il livello di consapevolezza dei commentatori di allora.
Per esempio, per quanto riguarda la carta stampata del nostro paese, Il Corriere della Sera, all’epoca
diretto da Franco di Bella, fra il settembre 1978 e il febbraio dell’anno
successivo inviò a Teheran come corrispondente nientemeno che Michel Foucault
(che in Italia pubblicava le proprie opere con Rizzoli), il quale firmò una
decina di reportage iscritti sotto la
rubrica di “Taccuini persiani”. Rileggerli oggi fa un certo effetto, emozione di
cui vorremmo rendere partecipi i nostri lettori.

Proprio mentre i Fratelli
mussulmani assassinavano Sadat nel novembre 1979, in Iran si compiva il totale
sbando del regime retto da Reza Pahlavi. In quei mesi l’ayatollah Ruhollah
Khomeini era ancora in esilio a Parigi, dove risiedeva dal 1964; ma, dopo la
fuga dello Scià, il 12 febbraio 1979 Khomeini fece il suo trionfale ritorno in
Iran, proclamando la “Repubblica islamica”.

Michel Foucault, nel suo articolo
del 22 ottobre 1978 intitolato “Il ritorno del profeta” – non prima di aver
rilevato che gli studenti a capo della rivolta “Non ci lasceranno mai di loro
spontanea volontà. Non diversamente dal Vietnam” – inquadrava in questo modo
la lotta politica in atto in Iran: “La situazione in Iran sembra essere sospesa
ad una grande tenzone tra due personaggi dal blasone tradizionale: il re e il
santo; il sovrano in armi e l’esule inerme; il despota con, di fronte, l’uomo
che si erge con le mani nude, acclamato da un popolo”. Più oltre, commentando
il proposito espresso da Khomeini di realizzare un «governo islamico», Foucault,
nell’intento di dare conto delle caratteristiche di questo tipo di ordinamento,
afferma che “nessuno in Iran intende un regime politico nel quale il clero
svolga un ruolo di guida o di inquadramento. Mi è sembrato che l’espressione
fosse usata per designare due ordini di cose: un’utopia […]. Un’ideale […]. Per
quanto riguarda le libertà, esse saranno rispettate nella misura in cui il loro
uso non nuocerà al prossimo; le minoranze saranno «protette» e libere di vivere
a modo loro, a condizione di non danneggiare la maggioranza; tra l’uomo e la
donna non vi sarà «disuguaglianza», perché vi è una «differenza di natura». Per
quanto concerne la politica, che le decisioni siano prese a maggioranza, che i
dirigenti siano responsabili dinanzi al popolo e che ciascuno, com’è previsto
dal Corano, possa alzarsi e chiedere conto a colui che governa”. Ricostruzione
molto benevola del programma khomeinista, benevolenza che raggiungeva il colmo
nella chiusa dell’articolo: “cercare, a prezzo della loro stessa vita [si
riferisce agli insorti, seguaci di Khomeini], quella cosa che noialtri abbiamo
dimenticato nel modo più assoluto, dal Rinascimento e dalle grandi crisi del Cristianesimo
in poi: una spiritualità politica? Sento
già degli europei ridere; ma io […] so che hanno torto”.

Il 26 novembre 1978,
tratteggiando il profilo di Khomeini – il “vecchio santo in
esilio a Parigi” –
in un pezzo messo in pagina con il titolo “Il mitico capo della rivolta”,
Foucault affermava: “Nessun capo di Stato, nessun leader politico, anche
appoggiato dai mass-media del suo paese, può oggi vantarsi d’essere oggetto di
un attaccamento così personale e così intenso”. E di seguito con tono
profetico: “la domanda postami senza tregua è stata naturalmente questa: «È la
rivoluzione?» […]. È l’insurrezione di uomini dalle mani nude che vogliono
sollevare il peso formidabile che grava su ciascuno di noi, ma, più
particolarmente, su di loro, lavoratori del petrolio, contadini alle frontiere
degli imperi: il peso dell’ordine del mondo intero. È forse la prima grande
insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più moderna di
rivolta”.

Infine, il 13 febbraio 1979, scrivendo
l’articolo conclusivo della sua collaborazione il giorno successivo del ritorno
in patria di Khomeini (il titolo era “Una polveriera chiamata Islam”), Foucault
annunciava “un risultato infinitamente raro nel XX secolo: un popolo senza armi
che si solleva tutto intero e rovescia con le sue mani un regime «onnipotente»”.
Senza dare ad intendere al lettore se si trattasse della denuncia di un rischio
o di una notizia data con compiacimento, in riferimento all’Islam nel suo
complesso Foucault segnalava la possibilità che questi divenisse una “gigantesca
polveriera, formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni stato
mussulmano può essere rivoluzionario dall’interno, a partire dalle sue
tradizioni secolari”. 

Si dirà che delle estrapolazioni
non dicono tutto quello che si trova in un articolo integrale, e su questo non
possiamo che convenire; tuttavia il tono di Foucault è infelice nel suo voler
essere pervicacemente portavoce ed espressione di umori terzomondisti, a loro
volta prodotti da un malinteso senso di colpa di cui l’Occidente, oggi, non si
può più permettere di essere gravato. Alla fine degli anni Settanta la memoria
della decolonizzazione era ancora presente e poteva forse agire da scusante;
oggi non ve ne sarebbe alcuna, se non i residui di visioni ideologiche che da
tempo hanno perso ogni plausibilità.   

Commenti di Michel Foucault alla
rivoluzione khomenista in Iran
(articoli
apparsi su Il Corriere della Sera dall’ottobre 1978 al febbraio 1979 – direttore
Franco di Bella)

davideg.bianchi@libero.it