Riscoprire Stefan Zweig per capire che era tutt’altro che un pacifista

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Riscoprire Stefan Zweig per capire che era tutt’altro che un pacifista

30 Maggio 2010

Nato a Vienna nel 1881 da una facoltosa famiglia ebraica, Stefan Zweig, alla pari di Robert Musil, fu tra quegli scrittori che, almeno inizialmente, non rinunciarono ad offrire il proprio contributo alla causa dell’Impero austro-ungarico. Come ricorda in Il mondo di ieri, “in una simile epoca, da uomo relativamente giovane quale ero, era insopportabile attendere che fossi raschiato via da una simile oscurità per essere gettato in un luogo che non mi apparteneva”. Così trovò un impiego in grado di valorizzarlo e soprattutto di tenerlo lontano dall’orrore delle trincee: l’archivio di guerra di Vienna.

Ottenuto un permesso d’uscita dal paese, nel novembre del 1917 Zweig si recò in Svizzera per tenervi alcune conferenze e per assistere alle prove del suo dramma Geremia, di stampo pacifista, che venne infine rappresentato a Zurigo nel febbraio 1918: “E’ stato un grande successo, e potrei considerarmi contento”, scrive in una lettera a Romain Rolland contenuta in questo suo Sull’orlo dell’abisso (a cura di Mattia Mantovani, Armando Dadò editore, Locarno 2009, pp. 275), che raccoglie i diari integrali del soggiorno svizzero e una scelta di sue lettere dello stesso periodo. In realtà, proprio in quei giorni soffriva “nel più intimo segreto”, e non per quella guerra che stava distruggendo un’intera, giovane generazione, ma per aver fatto “favori a degli affaristi” e dunque per il rischio di poter perdere l’amicizia delle poche persone che lo amavano: in Zweig era impossibile disgiungere la forte tensione morale dalla lucida consapevolezza dei propri errori e delle proprie debolezze.

Dopo aver chiesto e ottenuto varie proroghe, quel suo soggiorno svizzero si prolungò, finché non venne esentato dall’obbligo del servizio militare. Nella neutrale Svizzera, dove sarebbe rimasto fino al 1919, iniziò a scrivere per il giornale viennese “Neue Freie Presse” e per il quotidiano ungherese di lingua tedesca “Pester Lloyd”, ma soprattutto coltivò un intenso rapporto d’amicizia col citato Rolland: è grazie al suo influsso che Zweig decise di intraprendere la propria personale “battaglia contro il tradimento della ragione”. I diari e lettere qui proposti documentano la drammatica presa di coscienza del crollo della vecchia Europa e l’inizio del personale percorso di Zweig sul limitare dell’abisso. Troppo semplicisticamente l’austriaco è stato definito “pacifista” senza che si spiegassero i contenuti di quella sua posizione.

Il suo rifiuto della violenza non aveva nulla a che fare con la retorica dei buoni sentimenti o con vuote dichiarazioni d’intenti (“Pacifismo: il concetto è stato troppo abusato, troppo deturpato dai servi e filibustieri dei modi di pensare”, osservò egli stesso nel 1917), piuttosto si fondava sulla sua passione per la traduzione e per la mediazione culturale (curò opere di Baudelaire, Verlaine, Dickens, Dostoevskij, Balzac Gorkij, Pirandello ed altri) ed esigeva gesti di grande concretezza: “Ciascuno decida fino a che punto intende vincolarsi”, scrisse nel 1926, “e dove si collochi; basta con le commissioni ambigue, basta con l’europeismo dei banchetti, privo di rischi, privo di vincoli! Quello che ci occorre non è il cosmopolitismo slavato degli scribacchini ma l’internazionalismo autentico, disposto a ogni sacrificio, la fedeltà duratura, indissolubile, dell’unica vera patria del nostro mondo intellettuale europeo!”.

Zweig tuttavia non riuscì a resistere a lungo “sull’orlo dell’abisso”. L’“epoca ingiusta e scellerata”, coincidente con l’avvento di quel nazionalsocialismo, la cui vittoria nelle elezioni del 1930 lui stesso aveva salutato come un segnale di cambiamento imposto da giovani, l’avrebbe portato al suicidio, a Brasilia, il 23 febbraio 1942.