Dice: è presto. Ci stiamo lavorando. Non è che non lo sanno loro, i privati. Non lo sappiamo manco noi, i governanti e gli scientisti che li stanno consigliando. Il tema è quello che ci accompagnerà da qui sino alla metà di questo mese ed oltre: le regole per le riaperture. Dei bar, dei ristoranti, intanto. Poi dei cinema, dei teatri, dei centri sportivi, di alcuni tipi di negozi e così via. Già si sa che la prossima riapertura non varrà per tutti e che in molti dovranno aspettare. E già su tutte queste differenze ci sarebbe da sindacare. Prima di parlare di metri di distanza – un affare serio – e di misure di sicurezza – una roba altrettanto seria – conviene fare il punto sul “contrasto alla pandemia”, che è giocoforza legato al tema del ripristino della normalità. Se dovesse andare male – lo sappiamo – ci rinchiuderanno di nuovo tra le mura di casa. Con qualche nuovo senso di colpa pronto da inculcare sulla sempre più povera, e non in senso figurato, popolazione italiana. Se dovesse andare bene, oltre al “grazie” alla fortuna, di certo non avremo il dovere di ringraziare pure l’esecutivo Conte.
Esistono due modi per combattere la pandemia: inseguirla, come stiamo facendo in buona parte del Belpaese, o gestirla, come hanno fatto e stanno facendo in Veneto. L’inseguimento è facile da capire: invece di fare tamponi a più persone possibili, l’esecutivo si è affidato alla statistica prospettica. Quando, tra due settimane – il tempo che il governo si è dato – ci verranno comunicati i dati sui contagi, sui morti e sulle terapie intensive, ci si paleserà dinanzi agli occhi non quello che è accaduto alla scadenza di questi quindici giorni ma quello che sta accadendo proprio in questo momento. Quello in cui bisognerebbe fare più tamponi possibili. Quelli che non stiamo facendo. Un po’ perché il Comitato scientifico, ma pure le Regioni, sembrerebbero quasi avere una sorta di pregiudizio nei confronti del “metodo Veneto”, che ha funzionato e sta funzionando. E un po’ perché le indicazioni del governo in materia non sono chiare. Poi può dirci bene lo stesso eh, Dipende dal virus. Ma se dovesse andare male, sapremo probabilmente il perché. Chiarito questo, conviene parlare di assurdità, perché di questo trattiamo.
Annotiamolo da principio: la mancanza di chiarezza non è giustificabile. Se un bar ha la possibilità di aprire tra dieci giorni, quel bar deve sapere se e come può farlo. Oggi si tirano ancora i numeri al lotto. Le ricostruzioni della stampa differiscono sulle metratura: 4 metri di distanza tra un tavolo e l’altro; no, basteranno 2 metri. Vale per tutti i locali. Non lo sanno i giornalisti. Secondo noi non lo sanno neppure dalle parti di Palazzo Chigi. E non è normale. Non si può improvvisare una ripartenza. Le regole effettive non possono essere rese noto sul gong, magari attorno al 17 di maggio, il giorno prima, com’è già capitato per le “fasi” precedenti a questa. Non è una cosa seria, dai. I privati avrebbero, e anzi hanno, il diritto di doversi e potersi organizzare per tempo. Sia come sia, c’è un dato – almeno quello – che risulta abbastanza condiviso e pacifico dai media: se le regole dovessero davvero prevedere una distanza di 2 metri tra 2 commensali e un’ulteriore distanza di 4 metri tra un tavolino e l’altro – per motivi di spazio – il 60% delle attività, tra bar e ristoranti, finirebbe col tenere la serranda chiusa. Se non altro per impossibilità fisica di consentire un servizio così strutturato.
Riaprire, senza riaprire, facendo fallire. E senza avere la minima idea sistemica di come si possa aggredire la pandemia, invece che privilegiare il fatalismo, nell’attesa che le cose vadano bene per grazia ricevuta. La sintesi, che è drammatica, è questa.