Ritratto del jihadista ricco ed istruito
22 Novembre 2016
Ormai non si contano più gli studi che descrivono i terroristi come vittime di una società che non li accetta e che non offre loro sufficienti opportunità. Tanto da arrivare alla tesi per cui, se si vuole sconfiggere il terrorismo, l’Europa deve investire di più cultura e progetti di integrazione. Eppure non tutti gli esperti concordano su cause e origini del fenomeno. Secondo il direttore del Center for Prevention, Deradicalization and Individual Monitoring (CPDSI) – un’organizzazione francese che si occupa di radicalismo islamico – su un campione di centosessanta famiglie i cui figli avevano lasciato la Francia per andare a combattere in Siria, due terzi dei jihadisti appartenevano alla classe media. Sulle pagine del Telegraph, un mese fa, è apparso un articolo intitolato Le reclute dello stato islamico sono, in media, più istruite rispetto ai loro connazionali, che riportava un rapporto del World Bank Group: su 331 reclute presenti in un database dello stato islamico, il 69% ha conseguito almeno il diploma di scuola superiore, e un quarto dei jihadisti ha fatto il college. Non solo: la stragrande maggioranza ha un lavoro stabile prima di arruolarsi. I terroristi analfabeti risultano essere, dallo stesso studio, meno del 2%.
La maggioranza dei combattenti islamici viene da Arabia Saudita, Tunisia, Egitto, Marocco, paesi non esattamente poveri. Tant’è che i ricercatori sono arrivati alla conclusione che “più ricchi sono i paesi di provenienza, più è probabile che da lì arriveranno reclute per i gruppi terroristici”. Alberto Abadie, economista ad Harvard, nello studio Poverty, Political Freedom, and the Roots of Terrorism, sostiene che “il rischio terrorismo non è più alto di altrove nei paesi poveri” e ancora che “non c’è una significativa associazione tra terrorismo e variabili economiche come il reddito”. Dunque l’idea per cui la miseria, l’ignoranza, i disordini sociali e la depressione economica possano essere la sola linfa del terrorismo di matrice islamica, non regge, nonostante la incessante litania progressista sulle colpe ataviche di un Occidente opulento che non fa che accrescere la disuguaglianza. Ma gli attentatori islamisti che hanno colpito l’Europa, gli Usa, come pure quelli della strage di Dacca, venivano da famiglie benestanti e avevano frequentato scuole e università prestigiose. Vi dice niente il fatto che quindici dei diciannove kamikaze dell’11 settembre arrivassero da famiglie di prim’ordine del Medio Oriente? Qualcuno ha mai letto la biografia di Bin Laden? (Nella foto, in un’immagine da ragazzo)
Non c’è bisogno di avere accesso ad archivi segreti per reperire il curriculum di questi assassini. Scuole d’élite, esperienze di studio all’estero, vite dorate: il terrorismo non è appannaggio di una superstizione ignorante. Tanti di loro hanno persino messo su famiglia, sfatando un altro mito, che vuole i terroristi come dei reietti della società. Non si tiene conto insomma dell’unica spinta propulsiva che a ben vedere muove il terrorismo islamista, cioè l’odio per l’Occidente e i suoi valori. Come per il comunismo con i “nemici del popolo”, che non avevano alcun diritto, nemmeno quello alla vita, anche per i jihadisti l’Occidente, le sue radici e la sua cultura non meritano di esistere, e vanno distrutte. Non è la povertà ma l’ideologia la base dell’odio contro la civiltà occidentale. Richard Millet ha sintetizzato la cecità del nostro tempo nel suo libro L’antirazzismo come terrore letterario: “l’immigrazione massiccia e continua che il capitalismo internazionale ha messo in opera, da tre decenni, costituisce un disastro umano che la propaganda tenta di mascherare”, scrive l’autore, “sostenendo, per esempio, che più l’immigrato è lontano dalla nostra cultura, se non addirittura ostile a essa, migliore è come persona, ‘buono per natura’”. E se tra gli immigrati spuntano i jihadisti, allora, che faremo? Costruiremo un modello di integrazione perfetto?