Ritratto di famiglia e non autorizzato dei Neoconservatori americani
04 Febbraio 2010
Nessuno ha mai fatto una conta dei neocon; i loro critici, propensi a vederli come cospiratori dietro le quinte, hanno indicato – scherzando, di sicuro – numeri risibili: 64 o 17, o forse solo sei. A volte sembrano ancora meno, e per di più incestuosi: la metà degli otto commentatori ufficiali in occasione della crociera in Alaska di Commentary erano Podhoretz (il padre Norman, sua moglie Midge Decter, il figlio John ed Elliott Abrams, loro figlio adottivo). L’ascesa di John Podhoretz all’interno del magazine è stata oggetto di grande biasimo da parte dei neoconservatori, secondo i quali si è trattato di un esempio di quel nepotismo che loro, così almeno dicono, condannano.
Stabilire chi si meriti l’appellativo “neocon” può essere faccenda scomoda, soprattutto perché in genere la gente rifugge una tale etichetta, o afferma che è senza senso o datata, o la prende come un’offesa antisemita. Sebbene ci siano state e vi siano diverse eccezioni – ad esempio Daniel Patrick Moynihan, Jeane Kirkpatrick, John Bolton – di certo i più importanti neoconservatori (o comunque gente che così è stata definita) sono ebrei, anche se è molto facile per un ebreo (quale io sono) dire una cosa del genere. In un consesso di gente educata e a modo, l’ebraicità dei neocon viene tirata fuori in maniera improvvida, imbarazzante; si tratta soprattutto di stereotipi del Web, e nelle conversazioni sull’argomento abbondano parole come “dirty” (sporco), “warmonger” (guerrafondaio) o “kike” (slang per “ebreo”, dispregiativo – ndt) insieme a storie di congreghe che si muovono nell’ombra che sembrano prese da una sorta di Protocollo dei Discendenti di Kristol.
“Neoconservatore è un termine che non si attaglia né a me, né ad alcuna persona che io conosca” dice Boot, un ebreo di origini russe educato a Berkeley privo della caratteristica mancanza di senso dell’umorismo comune a tanti neocon. “Se la domanda è ‘fai parte di questa nefanda cabala trotzkysta legata al Mossad e al Likud di Israele nonché alla Bildelberg Society, alla Commissione trilaterale e alla Regina di Inghilterra?’, la risposta è: ‘sei scemo’”. Molti neocon, prosegue Boot, non sono d’accordo l’un con l’altro, oppure non si conoscono proprio; figurarsi se possono impegnarsi in qualcosa che sia anche solo lontanamente coordinato da qualcuno. “Non c’è alcuna riunione del ‘Comitato centrale dei Neocons’ dove parliamo di cose come lustrare la nostra immagine, assoldare aziende di relazioni pubbliche o promuovere la ‘neoconologia’”.
Naturalmente, c’è chi devia dalla norma neoconservatrice. Per esempio, l’ex capo del Council on Foreign Relations, Leslie Gelb, ha detto che in 35 anni non ha mai sentito un neocon ammettere di essersi sbagliato; ma qualcuno, come David Frum dell’AEI e Joshua Muravchik di Commentary, ci sono andati pericolosamente vicini. “Che sia un po’ sbagliato o tremendamente sbagliato, fatto sta che non ci siamo mai discolpati per l’Iraq”, ha detto Muravchik. Uno a cui l’etichetta è stata appiccicata per caso è Dick Cheney, che religiosamente, intellettualmente, ideologicamente, stilisticamente e culturalmente non sembra possedere i giusti requisiti – sebbene non vi sia dubbio sul fatto che è diventato il più attivo portavoce dei punti di vista neocon (sua figlia Elizabeth e Bill Kristol hanno fondato insieme KeepAmericaSafe.com, un ulteriore tentacolo del neoconservatorismo la cui missione è – quale altra può essere? – un approccio “senza remore” alla lotta contro il terrorismo).
I neocon sono stati, con tutta evidenza, tra i principali sostenitori della guerra in Iraq. Però sottolineano che occupavano soltanto posizioni di “secondo piano” nell’amministrazione Bush, non abbastanza per poter decidere qualcosa in autonomia. Soltanto dopo l’11 settembre Bush si rivolse veramente a loro – sostengono – e solo perché erano in grado meglio degli altri di spiegare ciò che era appena accaduto, e di dire ciò che andava fatto. “E’ un’idea assurda quella secondo cui Doug Feith, Paul Wolfowitz e Richard Perle – che neanche faceva parte dell’amministrazione – stavano manipolando gente come Don Rumsfeld e Dick Cheney, inducendoli a fare ciò che non avrebbero voluto” dice Norman Podhoretz (Perle fu presidente del Defense Policy Board del Defense Department civile). “E’ stato solo l’antisemitismo alla base di tutte queste storie che ha fatto sembrare plausibile a tanta gente una storia del tipo ‘questi scaltri ebrei stanno manipolando questi stupidi goyim (gentili, ndt) al governo’… questo è il modello. Non è mai stato detto in modo tanto crudo, ma l’idea, essenzialmente, è questa”. Che fu tutta una manovra degli israeliani è qualcosa di “doppiamente assurdo”, continua Podhoretz, perché la verità è che Israele si oppose alla guerra (in effetti, dice Stephen Walt, le cose sono più complesse: Israele riteneva che l’Iraq fosse una diversione rispetto al problema principale, cioè l’Iran, ma acconsentì alla guerra dopo che Bush promise di occuparsi, in seguito, degli ayatollah).
Quando la guerra in Iraq si tramutò in un disastro, i neocon uscirono dall’amministrazione Bush, si curarono le ferite e scrissero memorie difensive. Ma sin da allora, la gran parte di loro afferma che la guerra in Medio Oriente per la quale tanto si spesero resta una buona idea; il problema è che i loro consigli furono terribilmente travisati. Tra questi c’è Boot, che già nel 2001 ammoniva che l’Afghanistan avrebbe potuto tornare a essere un “covo di terroristi” qualora Bush avesse insistito a fare la guerra solo con aerei e hi-tech, e che anche l’Iraq richiedeva un più alto numero di truppe. Nel 2006 Boot trasformò quella che Bush, apparentemente, credeva doveva essere una chiacchierata informale alla Casa Bianca con alcuni neoconservatori – tra loro anche Krauthammer e Kristol – in un severo seminario su quello che era andato storto in Iraq, che lasciò il presidente rosso in faccia e piuttosto agitato.
Un altro che non lesinava critiche è Frederick Kagan, un analista militare che ha sempre lavorato all’ombra del padre e del fratello maggiore. Nel tratteggiare e caldeggiare il surge in Iraq, il giovane Kagan ha aiutato a ribaltare l’incerto andamento della guerra e del neoconservatorismo. Nel farlo, ha prodotto un caso degno di studio sulla tenacia, la metodologia, l’intelligence, e l’efficacia dei neocon. Alla fine dello scorso anno, quando Foreign Policy rese pubblica la sua “Top 100” dei Pensatori Globali, “La famiglia Kagan” appariva, collettivamente, al 66° posto. A volte, sembra che vi siano tanti Kagan quanti neocon. In effetti, ce ne sono solo quattro: Donald (il padre), Robert e Frederick (i figli), e Kimberly (la moglie di Frederick). Donald Kagan, professore di storia a Yale, è un’autorità sulla guerra del Peloponneso, ma i suoi interessi si allargano alla guerra in quanto tale, che lui arriva a vedere, come disse una volta, “lo stato naturale della specie umana”.
Frederick in gioventù era un ragazzo sgobbone e noioso che passava il tempo ricostruendo su una carta geografica le battaglie di portata storica; conseguì un dottorato a Yale in storia militare russa e sovietica, poi insegnò guerre per dieci anni ai cadetti di West Point. Lungo la strada ha sposato Kimberly Kessler, una compagna dello Yale dagli interessi quasi altrettanto inquietanti quanto i suoi (adesso la Kessler dirige un piccolo think-tank di Washington, l’Istituto per gli studi di guerra). Sin dall’inizio Frederick Kagan, che si è sempre mostrato scettico sui metodi di guerra hi-tech che tanto piacevano a Rumsfeld, si rese conto che la guerra in Iraq era mal condotta e, con l’aiuto del generale in ritiro Jack Keane, riuscì a convincere di questo fatto anche Bush. Di qui il surge. Tra i più impressionati vi fu il generale David Petraeus, adesso a capo del Central Command. Petraeus (cui è stato conferito il Premio Irving Kristol 2010, e che per questo aprirà la conferenza Irving Kristol all’AEI, in maggio) definisce Fred Kagan “brillante”, “estremamente scrupoloso nel suo lavoro”, “un autentico studioso della storia”.
Su suo invito, Frederick e Kimberly Kagan, per l’occasione coperti da un giubbotto antiproiettile, a partire dall’aprile del 2007 hanno compiuto diverse ispezioni del teatro iracheno. Due volte, l’anno scorso, sono andati in Afghanistan, la seconda volta come sesta parte di un gruppo di dodici civili chiamato a dare consigli al generale Stanley McChrystal. I risultati cui giunse quel gruppo avvaloravano la richiesta di altri 40 mila soldati avanzata da McChrystal.
Secondo i suoi critici, alle volte Frederick Kagan mostra eccessiva fiducia nelle soluzioni puramente militari (un’accusa alla quale i neocon, molto pochi dei quali hanno fatto il militare, sono particolarmente soggetti). “Sono uomini ai quali la vita ha dato troppo e troppo facilmente, così diventa per loro molto facile vedere le nostre truppe come semplici strumenti per realizzare i loro piani” dice il commentatore di affari militari Ralph Peters, già ufficiale del servizio informazioni dell’esercito (Peters resta sorpreso e perplesso quando viene chiamato neocon. “Non ho i requisiti – ribatte: – ho servito nell’esercito, non sono stato a un college né a un’università della Ivy League, non ho finanziatori. E sono fisicamente abile”). Per parte sue, Kagan assicura di non nutrire ingenuità circa le possibilità delle armi, né si pente di aver ripreso, a volte, i generali. E sebbene sia iscritto al Partito repubblicano nonché co-editore del Weekly Standard, afferma di non essere un neocon.
Nonostante la loro rimarchevole resistenza, c’è poco trionfalismo tra i neocon. Persino quelli che si sono mantenuti prudentemente ai margini durante la guerra in Iraq si mantengono istintivamente sulla difensiva, tradendo un atteggiamento quasi patologico da outsider (qui nel senso di straniero, ndr). “Non voglio parlare con lei se sta preparando qualcosa di cattivo” è stata la risposta data da John Podhoretz a una normale richiesta per un’intervista. Il solitamente affabile Bill Kristol è stato ugualmente sfuggente. Nonostante il suo disdegno per qualunque comportamento alla Kissinger, lui ha giocato la classica carta di Kissinger: era in strada, spiegava, e quindi non disponibile. Quando lo sono andato a trovare all’improvviso – nella tana del lupo dei conservatori, al 1150 della 17ma strada di Washington nordovest, dove The Weekly Standard ha sede cinque piani più in basso dell’AEI – lui era apparentemente tornato dai suoi viaggi, ma comunque si è rifiutato di ricevermi. Nei circa tre minuti che mi ha concesso, è apparso chiaro che il solo parlare di neoconservatorismo – legittimare la semplice nozione della sue esistenza, e la sua influenza – gli risulta estremamente sgradevole.
Coloro che hanno ascoltato l’elogio di Bill al padre, quella mattina di settembre, concordano nel dire che fu uno splendido addio, quello che vorresti sentire detto per te da tuo figlio. Eppure, persino alcuni suoi ammiratori restarono stupiti. Il Bill Kristol che conoscono è un ragazzo accorto, che utilizza il suo considerevole intelletto per fini concreti. Non lo avevano mai visto, ecco, così sincero. Quelli che sono familiari con i Kristol, padre e figlio, vedono le somiglianza tra i due, in special modo il loro modo di fare arguto ed educato. Ma quel che colpisce di più sono le differenze. Come disse Rabbi Gil Steinlauf a quel funerale, Irving è stato il “perenne outsider”, incarnando così il destino perenne degli ebrei, condannati a indagare, analizzare, mantenersi retti e onesti. Bill, al contrario, è l’affermato insider, quello che formula giudizi, che intesse reti, che costruisce palazzi. Persino i suoi amici lo descrivono più come un uomo d’azione che come un ideologo.
Irving era spesso al di sopra della politica; Bill invece c’è dentro fino al collo, e le sue scelte lo hanno portato ad appoggiare Colin Powell, Gary Bauer, Alan Keyes, e la Palin. “Preferirebbe prendere una posizione audacemente sbagliata che una scontatamente giusta” dice un neocon di lunga data che vuol mantenere l’anonimato, in nome dell’amicizia tra i due. Diverse persone che conoscono Kristol descrivono il suo fervente attivismo per la Palin – condusse una vera campagna d’opinione per convincere John McCain a inserirla nel ticket repubblicano – come l’attrazione di un’adolescente, la cui scintilla si accese quando una crociera del Weekly Standard fece tappa a Juneau. Boot la mette in modo un po’ diverso: “E’ stata, credo, una fantasia fatta senza pensarci su troppo. Non credo che Bill pensasse che sarebbe davvero accaduto. Lui è il tipo di persona che dice ‘Hey, guarda quel bel volto a cui nessuno presta attenzione’”. “Bill è un mio caro amico, ma fa un sacco di cose solo per farsi pubblicità” dice un repubblicano di spicco, anche lui dietro la promessa dell’anonimato per paura di offendere Kristol. Ciò detto, è consolidata tradizione neocon (a introdurla sarebbe stato uno dei principali guru del movimento, Leo Strauss, controverso teorico politico all’università di Chicago tra gli anni ’40 e i ’50) che l’elite erudita debba crescere principi, o principesse, al principio del tutto impreparati. E’ ciò che Kristol fece a suo tempo con Quayle.
E mentre Irving Kristol era diffidente circa l’ “esportare la democrazia”, questa è diventata la grande causa di suo figlio. I detrattori di Bill Kristol amano citare le sue cantonate, ad esempio che gli sciiti e i sunniti avrebbero convissuto senza problemi. “Bill Kristol, ma non ne azzecchi mai una?” gli chiese una volta Jon Stewart. Persino suo padre se ne doleva: “Mio figlio si è sbagliato ancora”, si lamentava talvolta con gli amici di famiglia. Ma i timori del vecchio Kristol sono stati sepolti sotto la nacha, ossia l’orgoglio di un padre ebreo verso i suoi figli. Leggo il New York Times, disse una volta, solo per cercare il nome di mio figlio. Per l’infinita frustrazione dei critici di Bill, però, niente sembra toccarlo. La sua breve e infelice carriera da opinionista per il New York Times, per esempio, è stata immediatamente seguita da una collaborazione al Washington Post. Tra l’altro, nell’ambiente neocon il fiasco al Times ne ha solo innalzato la considerazione: come una volta mi ha detto uno di loro, a differenza di un presunto conservatore come David Brooks, Bill Kristol non si è “adattato” piegandosi alle inclinazioni liberal di quel giornale.
Non c’è dubbio che Bill Kristol sia attualmente il neocon più in vista e ascoltato, con una potenza e un’influenza che suo padre non ha mai avuto. Adesso appoggia Obama sull’Afghanistan. Naturalmente, non è stato facile per lui: ha dovuto cospargere il suo editoriale sul Washington Post con una serie di espressioni quali “tropo bello a metà”, “folle”, “sciocco”, “pseudo”, prima di arrivare al fatidico “Però…”. I critici potrebbero supporre che Kristol e i neocon abbiano assunto una posizione inattaccabile, che consenta loro di rivendicare i meriti nel caso la sforzo bellico di Obama abbia successo, o di biasimare le mezze misure adottate dai democratici qualora le cose si mettano male. Ma non potrebbe essere, come ha suggerito Jacob Heilbrunn, che il pensiero neoconservatore non si sia limitato a conquistare i Repubblicani, ma si sia anche infiltrato tra i Democratici?
Un funzionario dell’amministrazione Obama se la ride all’idea che i neocon abbiano potuto influenzare le deliberazioni del presidente, soprattutto per quel che riguarda l’Afghanistan. “Si potranno sentire vendicati – dice – ma se è così, allora ammettono il fatto che l’amministrazione che loro hanno religiosamente appoggiato ha sbagliato tutto”. Ciò è senz’altro vero. Ma con due guerre che vanno avanti, con aspiranti kamikaze che si riempiono la biancheria di esplosivo, con agenti doppiogiochisti che fanno brandelli di agenti della Cia, con le centrifughe degli ayatollah che continuano a girare… In altri termini, con tutti i problemi del Medio Oriente e non solo che sembrano sempre più fuori controllo, gli americani potrebbero diventare ancora più insofferenti di diplomazia e dialogo e sfumature, proprio come stanno diventando sempre più disincantati verso la politica interna di Obama. Il neoconservatorismo è vivo e vegeto, e grazie alle sue certezze, il suo fascino – seppure aiutato, forse, da un opportuno cambio di nome – continuerà, molto probabilmente, a crescere.
Tratto da Newsweek
Traduzione di Enrico De Simone