Riuscire a staccare Putin da Assad è la vera chiave di volta della crisi siriana

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Riuscire a staccare Putin da Assad è la vera chiave di volta della crisi siriana

04 Luglio 2012

La guerra civile siriana dura da ormai più di sedici mesi. Più di un anno nel quale secondo l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo, una ong pro-ribelli con base a Londra, sarebbero morti più di sedici mila e cinquecento. Un anno in cui Bashar al-Assad ha perso il controllo di significativi ambiti del proprio territorio, di settori del proprio esercito, e in fondo della propria legittimità a governare, attraverso il proprio clan affaristico – religioso alauita, sulla Siria, il paese che suo padre Hafez al-Assad dal 2000 gli ha ‘lasciato in eredità’.

Mesi nei quali il regime degli Assad ha dovuto dar fondo a tutte le proprie risorse diplomatiche e militari per tenersi in piedi, uno sforzo che è passato principalmente per un ulteriore rinsaldamento delle relazioni tra Damasco e Teheran (i cui servizi di sicurezza esteri hanno giocato, e giocano tutt’ora, un ruolo centrale sul campo nello scontro tra esercito regolare siriano e la Syrian free army), e più recentemente con il quasi granitico sostegno della Russia del presidente Vladimir Putin.

Una partita, quella siriana, attraverso la quale il Cremlino cerca di riconquistare un proprio ruolo internazionale, forte del sostegno del governo cinese in funzione anti-occidentale, tanto in Consiglio di Sicurezza dell’Onu quanto sul piano diplomatico bilaterale (di Siria i presidenti Putin e Hu Jintao devono aver discusso al margine dell’ultimo incontro della Shanghai Cooperation Organization all’inizio di Giugno).

Una cosa sembra certa: il presidente russo Putin sembra aver realizzato che, a parte la legittima rabbia turca per il jet F-4 abbattuto e le ammoine indignate di Europa e Usa, nulla avverrà sul dossier Siria almeno sino alle elezioni presidenziali statunitensi del Novembre prossimo, quando il presidente Barack Obama tenterà di farsi rieleggere benché la sua amministrazione sia indebolita sul piano politico (lo scandalo ‘Fast&Furious’ nel quale è finito il suo AG, Eric Holder e al limite anche il pomo avvelenato che il Chief Justice Roberts gli ha rifilato facendo passare il suo Obamacare stanno lì a ricordarcelo) e azzoppata nella propria narrativa dalla seconda recessione in meno di cinque anni che investe l’economia americana.

Quanto all’Europa, le maggiori cancellerie del continente sono semplicemente fuori gioco sulla Siria, tanto sul piano diplomatico che militare, inguaiate con i grattacapi che danno da una parte la mundelliana ‘area monetaria non ottimale’, alias eurozona, e dall’altra la crisi fiscale e politica che vi si è giustapposta nell’ultimo anno e mezzo. 

E così il presidente russo gioca quasi indisturbato. E l’operazione di Putin è abbastanza intellegibile: riconquistare un pezzo di palcoscenico internazionale; riaffermare la propria posizione mediorientale e difendere la propria presenza navale sul Mediterraneo garantitagli dagli Assad con la base navale di Tartus; incidere sulle relazioni nel mondo arabo-musulmano, soprattutto in un’ottica di contenimento delle velleità neo-ottomane della Turchia che già nelle Repubbliche musulmane del Centro Asia gioca la sua partita di potere, un’area dove gli interessi russi e cinesi già si accavallano (il fatto che le armi utilizzate da Damasco contro il jet turco F-4 abbattuto la scorsa settimana fossero di produzione russa la dice lunga); e last but not least negare la legittimità del principio d’ingerenza umanitaria – come noto la fine di Muammar Gheddafi in Libia ha colpito i governi di Mosca e Pechino più di quanto non si possa credere.

Ciò accaden mentre la comunità internazionale transatlantica sta alla finestra, mal digerendo il ritrovato attivismo mediorientale di una Russia che, forte di una ordinata politica estera, tenta di riprendersi il proprio spazio in questo mondo post-unipolare.

Ora, sarà per le difficoltà fiscali in cui imperversano i paesi del Vecchio Continente e gli Stati Uniti, sarà perché l’illusione profetica di Francis Fukoyama sulla ‘Fine della Storia’ rimane un oppiaceo consolante in qualche anfratto della psiche collettiva occidentale, fatto sta che la Siria resta, dopo più di sedicimila morti in poco meno di un anno e mezzo, ancora per la maggior parte del proprio territorio e della propria popolazione sotto il pugno di ferro un medico improvvisatosi dittatore spietato, Bashar Assad – come lo fu suo padre Hafez e il massacro di Hama nel 1982 ne è macabro promemoria -, e la Russia rischia effettivamente di riuscire a imporre, con la discreta sponda iraniana, la sua politica all’interno fronte sunnita nelle declinazioni turco-saudita-qatariota.

Resta da capire se la linea russa sia di per sé ineluttabile. Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali con base a Roma, dice a l’Occidentale che la Russia ha in realtà cercato di esprimere una politica estera che andasse al di là della mera protezione di Assad al potere. “Prima [i russi] hanno espresso il piano Annan che come noto non ha funzionato. Adesso Mosca sta tentando di promuovere un nuovo piano di transizione che preveda una lenta sostituzione del governo di Damasco. E non si capisce ancora se alla fine di questo processo ci sarà ancora Assad o meno. Un dettaglio non irrilevante questo: a mio parere se si tenterà di mantenere Assad al potere difficilmente la situazione sul campo potrà stabilizzarsi”. Ma ammonisce il presidente dello Iai: “I russi sono in difficoltà. Mosca deve decidere se continuare a farsi prendere in giro da Bashar Assad, il quale ha abusato del suo sostegno solo per mantenersi al potere e non per prepararsi a un’uscita di scena, oppure avvicinarsi alle posizioni degli Occidentali. In ogni caso, credo sia molto difficile escludere la possibilità che preveda un qualche uso esterno della forza”.

La Russia rimane comunque saldamente in gioco e non è detto che Mosca sia in questo momento in una posizione di debolezza. Per Emanuele Ottolenghi, senior fellow alla Foundation for Defense of Democracies di Washington DC, i russi sono assolutamente coscienti della partita che stanno giocando. Quando gli chiediamo quale accordo America e Europa potrebbero proporre a Putin per ‘mollare’ diplomaticamente Assad, Ottolenghi taglia corto: “Nessuna [proposta]. La Russia teme i Fratelli musulmani più dell’Occidente e si scandalizza meno di noi per i diritti umani calpestati, che soffrirebbero comunque sotto un nuovo regime”. Per l’autore di Iran: the Looming Crisis è arcichiaro quel che la Russia sta facendo: “Vuole affermare la propria influenza in Medio Oriente, contenere il dilagare del principio di ingerenza umanitaria, e garantire i propri interessi economici. In più, è consapevole della nostra debolezza strutturale. Difficilmente le faremo cambiare idea”.

Quel che è certo oggi, è che il regime degli Assad resta ancora in piedi, e può contare su alleati forti e non è affatto scontato che il suo sistema di potere uscirà totalmente sconfitto dalla guerra civile che attanaglia il paese. E a questo punto, anche un intervento militare a guida euro-turco-statunitense, non pare opzione auspicabile. Basta andare alla memoria alla obsolescenza militare e politica dimostrata dagli europei, Francia e Inghilterra in testa, nella fase post-bellica dell’intervento Nato in Libia, con tutta la fuffa obamiana del leading from behind, la politica del ‘guidare da dietro’ – la stessa che a ragion veduta l’ex Segretario di Stato, Condoleezza Rice ha recentemente bollato sulla FoxNews come “un ossimoro”. E la Siria non è la Libia. Esiste un esercito e grandi fornitori di armi: i russi danno armi non solo direttamente all’esercito regolare di Damasco, ma anche attraverso l’Iran. Per questo non possiamo che prendere atto  che il rischio che Assad resti al potere è ancora molto alto.

Anche questo è il mondo post-unipolare, quello che Ian Bremmer ha recentemente chiamato “il mondo G-Zero”, un mondo senza una vera leadership. Ora che non c’è più il solo ‘poliziotto americano’ a fare la guardia alla stabilità del sistema con i suoi valori di libertà e che altri attori (ri)entrano nell’arena internazionale, il sogno delle sinistre europee e statunitensi è completo e i primi a pagarne il prezzo sono i siriani.