Robot tax per una società più equa?
13 Marzo 2019
Un recente studio, pubblicato sul sito del Dipartimento delle Finanze del Ministero Economia, ha analizzato gli effetti che un’eventuale contrazione del lavoro umano, a causa della diffusione dei robot, avrebbe sulle entrate fiscali, evidenziando come gli effetti, nel caso dell’Italia, potrebbero essere anche molto rilevanti, laddove, nel nostro Paese, la percentuale del gettito totale che deriva dal reddito da lavoro tocca il 73%, mentre la tassazione del reddito di impresa produce solo una quota del 17%. Vero è, in ogni caso, che, finora, questo fenomeno non ha ancora prodotto una vera e propria disoccupazione, anche perchè l’automazione può sia creare posti di lavoro, che distruggerli. E a smentire questo pericolo è stato anche lo Zew di Mannheim, il centro tedesco per la ricerca economica europea, secondo cui solo il 9% degli attuali impieghi in 21 Paesi del mondo è potenzialmente destinato, in futuro, ad essere svolto da robot. Resta comunque l’opportunità di non farsi trovare impreparati, almeno teoricamente, laddove, in riferimento alle possibili forme di prelievo sull’attività dai robot, secondo la stessa letteratura internazionale, si va da forme di imposizione diretta (aggiuntiva) sulle imprese che usano questa tecnologia, a forme di tassazione sul compenso (virtuale) che avrebbero i robot, in quanto sostituti degli esseri umani.
L’idea di introdurre una “Robot Tax”, parte, peraltro, dalla considerazione che il robot può anche essere un centro autonomo di posizioni giuridiche, come recentemente suggerito persino da una Raccomandazione UE, del 16 febbraio 2017. Guardando al diritto romano, del resto, considerando i robot come (i nuovi) schiavi dell’impero, si potrebbe riprendere il concetto secondo cui dei danni causati dagli schiavi rispondono appunto i padroni. E, in questo caso, il danno causato dal robot sarebbe il costo della disoccupazione che l’utilizzo dell’automazione determina (o meglio: che potrebbe determinare) a carico della collettività (a fronte, peraltro, di un maggior profitto di cui solo il “padrone” gode). Robot e intelligenze artificiali, tornando a concetti più in linea con il nostro attuale ordinamento tributario, potrebbero, del resto, configurare una sede fissa di affari e, considerato che, in alcuni casi, dispongono di un vero e proprio potere decisionale, ben potrebbero individuare stabili organizzazioni di società non residenti. L’alternativa alla individuazione di una nuova soggettività passiva sarebbe invece ipotizzare una sorta di imposta sull’attività produttiva (e non sul robot in sé considerato), che, diventando più efficiente attraverso l’automazione, giustificherebbe un maggior prelievo fiscale, da utilizzarsi magari anche per la riqualificazione dei lavoratori esautorati dai processi produttivi automatizzati. Da un punto di vista giuridico/fiscale, però, in realtà, di una robot tax non ci sarebbe bisogno.
Se un’azienda, sostituendo 10 dipendenti con i robot, crea maggior reddito e maggiori utili, su quelli dovrà, già ora, proporzionalmente, pagare maggiori tasse. Il problema, quindi, è più che altro di strategia ed obbiettivi politico/sociali. Vero è che, se attraverso i robot le imprese aumentano, più che proporzionalmente agli investimenti fatti, i loro profitti, non sarebbe stravagante ipotizzare una maggiorazione d’aliquota, magari anche progressiva, sui profitti crescenti derivanti da attività produttiva realizzate e gestite direttamente dai robot, stabilendo magari misure “compensative” in favore della riqualificazione professionale. In conclusione, al di là dello specifico “problema” della robot tax, sembra inevitabile andare verso uno spostamento della tassazione dal lavoro ad altri tipi di redditi. Pensare ad una “robot tax” può essere forse, sotto certi punti di vista, provocatorio, ma resta il fatto l’evoluzione tecnologica deve essere governata, sia nelle sue conseguenze positive che in quelle negative.