Robotica, è il corpo che fa la differenza
17 Febbraio 2008
Tutto avviene nel corpo, con il corpo e per il corpo, si
nasce e si muore con il corpo, con il corpo si soffre e si patisce e si gode,
la vita si genera con un atto rapido del corpo […]. Che le cose più importanti, l’amore, la vita,
il nutrimento, la morte avvengano per e nel corpo aggiunge mistero al mistero
dell’esistenza.
Giuseppe O. Longo, L’acrobata
Una tappa fondamentale sulla strada della
costruzione dell’uomo artificiale si ebbe, verso la metà del Novecento, con la
costruzione del calcolatore elettronico, o computer. Più che una macchina, il
computer è una metamacchina: a
seconda del programma che gli si fornisce, esso esegue un compito diverso, cioè
diventa una macchina diversa. Al contrario delle macchine tradizionali, che
elaborano e trasformano energia e materia (si pensi alle locomotive, agli
impianti chimici, alle centrali elettriche), il computer elabora e trasforma
informazione: dunque è una macchina simbolica e in ciò ha forti somiglianze con
la mente umana. Era dunque naturale assumerlo come modello della mente.
Così, nel 1956, nacque negli Stati Uniti
una nuova disciplina, cui fu dato il nome, per la verità, un po’ infelice e
fonte di equivoci durevoli, di intelligenza
artificiale (IA). L’intento era quello di costruire programmi per computer
che riproducessero il funzionamento dell’intelligenza umana. Rinasceva così in forme nuove la
vecchia ambizione di costruire l’uomo artificiale, sia pur con riferimento a una
sola caratteristica, ma si trattava della caratteristica umana più nobile: l’intelligenza.
Si consideravano naturalmente solo gli
aspetti logico-formali dell’intelligenza, quelli che il computer sa gestire, ma
a quei tempi c’era (e c’è tuttora) una forte tendenza a ridurre l’intelligenza ai
suoi aspetti razionali, anzi simbolici e algoritmici, quindi sembrava proprio
che il computer, opportunamente programmato, potesse funzionare come la mente:
del resto che cosa fa l’uomo quando pensa? Non fa altro che compiere delle
operazioni, ovvero esegue delle successioni di istruzioni (degli algoritmi). Questa era l’ipotesi di
fondo dell’IA. Che questi algoritmi fossero eseguiti in un cervello o in un
computer non faceva differenza: insomma, il supporto, l’hardware era necessario sì, ma inessenziale, ciò che contava era il
software.
Si era dunque creata una doppia metafora:
il computer era un cervello (si parlava infatti di cervello elettronico) e,
viceversa, il cervello era un computer. Si scopriva nel calcolatore un mirabile
specchio dell’uomo, si trattava solo di costruire programmi sempre più
raffinati. L’informatica era la tecnologia giusta per costruire, dopo tante
ingenuità, modelli della mente corretti e collaudabili. In realtà l’IA si
basava su ipotesi non dimostrate e su una fede quasi ideologica nel
riduzionismo algoritmico, cioè nella possibilità di rappresentare tutta
l’attività intelligente dell’uomo mediante l’esecuzione di catene più o meno
lunghe di istruzioni. Questa congettura, non dimostrata e forse non
dimostrabile, fu accettata da molti e pose le premesse teoriche e la
giustificazione filosofica della versione forte
dell’IA. Secondo questa versione, è possibile trasferire, senza perdite e senza
distorsioni, da una struttura (cervello) a un’altra (computer) la funzione (cioè i programmi e gli
algoritmi), che è la vera essenza dell’intelligenza. Si parla perciò di funzionalismo.
L’IA funzionalistica incontrò subito un certo
successo: in logica, in matematica, nei giochi, insomma nei problemi di
carattere formale, gli algoritmi costruiti da schiere di entusiasti
programmatori si dimostrarono efficienti o almeno promettenti. Ma dopo i primi
esiti lusinghieri, anche i sostenitori più ferventi del funzionalismo dovettero
%0Ariconoscerne i limiti, che derivano dalla natura disincarnata della mente
artificiale, cioè dall’assenza di un corpo
che comunichi con l’ambiente. Se l’intento era quello di simulare
l’intelligenza umana, il riduzionismo
mentalista dell’IA funzionalista ne trascurava un elemento essenziale,
l’immersione nell’ambiente.
Col passare del tempo si scopriva che
l’IA era molto diversa da quella umana, tanto che la locuzione “intelligenza
artificiale” si rivelava sempre più equivoca: l’elaborazione simbolica delle
macchine era caratterizzata molto più
dall’aggettivo “artificiale” che dal sostantivo “intelligenza”. La
differenza fondamentale era costituita dalla presenza, nell’uomo, del corpo, che invece era assente nell’IA.
L’intelligenza
umana (e animale) si costituisce e si manifesta attraverso il contatto e
l’interazione con l’ambiente. L’intelligenza è un insieme di caratteristiche e
attività fortemente sistemiche, oltre
che fortemente evolutive. In
particolare, l’intelligenza nasce, si sviluppa e si manifesta attraverso la comunicazione, cioè lo scambio di
messaggi di vari tipi, entro vari contesti, in vari codici e a vari livelli.
Poiché la nostra “interfaccia” con il resto del mondo è costituita dal corpo e
dagli strumenti tecnologici che via via costruiamo e perfezioniamo e che del
corpo sono un potenziamento e un’estensione, è chiaro che proprio al corpo
spetta il compito determinante di consentire la comunicazione e di filtrarla,
sia in ingresso (organi di senso) sia in uscita (muscoli e ossa).
Riconosciuto il limite essenziale dell’IA
funzionalistica e proseguendo sulla strada dell’imitazione della natura, per
avvicinare l’uomo artificiale al suo modello naturale si pensò di dotare il
cervello artificiale di un corpo artificiale, capace di comunicare con
l’ambiente e di agire in esso: questa strada portò alla nascita del robot. Alla base di questa svolta c’è
il riconoscimento della funzione conoscitiva del corpo.
Il sistema o macchinario gnoseologico,
cioè conoscitivo, dell’uomo ha due modalità essenziali di funzionamento. La
prima, più arcaica sotto il profilo sia della specie sia dell’individuo, è la
conoscenza tacita, globale e immediata attuata dal corpo, nella sua struttura e
nelle sue funzioni biologiche, e guidata dal sistema affettivo ed emotivo. La
seconda, più recente sotto il profilo evolutivo e posteriore nello sviluppo
dell’individuo, è la conoscenza esplicita, attuata nelle forme verbali e della
razionalità. Insomma, da una parte la conoscenza corporea, dall’altra la
conoscenza mentale.
Orbene, la storia della cultura
occidentale, in particolare della scienza, è in fondo un lungo tentativo di
trasferire le conoscenze dalla prima alla seconda modalità, cioè dalla
conoscenza biologica incarnata nel corpo (corpo che a sua volta è immerso
nell’ambiente) a una razionalità disincarnata. In altre parole si vorrebbe
tradurre nello scarnificato linguaggio astratto della mente (in particolare nel
simbolismo della matematica) le rigogliose strutture del corpo, della natura e
del mondo; si vorrebbe insomma rendere esplicito%2C consapevole e leggibile ciò
che è implicito, inconsapevole e oscuro.
Il tentativo culminò nell’impostazione
funzionalista o fisico-simbolica dell’IA. Ma fino a che punto è possibile questo
trasferimento? All’inizio si riteneva che tutte le conoscenze fossero
trasferibili, ma dopo i primi entusiasmi vennero le delusioni e oggi ci si
rende conto che se vogliono replicare più o meno da vicino l’intelligenza umana
anche le “macchine intelligenti” non possono fare a meno dell’equivalente di un
corpo con tutta la sua attività cognitiva profonda e in parte forse non
algoritmica. L’intelligenza disincarnata è troppo fragile e limitata.
Insomma il tentativo di tradurre in
conoscenza alta, razionale ed esplicita la massa delle conoscenze materiali,
corporee e implicite incappa nell’ostacolo tipico di ogni processo di
traduzione, cioè l’incompletezza.
Rimane sempre un residuo ostinato e ribelle, che non si può tradurre.
Appare così giustificato in termini
epistemologici il passaggio dall’IA funzionalistica all’IA incorporata nel
robot. Il robot, sotto questo profilo, si presenta come un corpo artificiale dotato
di una mente artificiale e non come una mente artificiale disincarnata e
isolata dal mondo. Il futuro della robotica più ambiziosa, quella che mira alla
costruzione di macchine dotate di intelligenza, emozioni e forse coscienza,
potrebbe dunque dipendere dalla comprensione del significato cognitivo delle
azioni semplici, incarnate e immerse nel contesto ambientale che compiamo di
continuo nella vita di tutti i giorni. Le descrizioni e gli strumenti usati in
IA sono “alti e deboli”: occorre integrarli con descrizioni e strumenti “bassi
e forti”, che riflettano e riproducano il nostro enigmatico e struggente
“esserci nel mondo”. Vedremo le
possibili conseguenze di questa svolta epocale.