Romney è l’uomo Gop: non gli resta che trovare il modo di battere Obama
25 Aprile 2012
Oramai la gara delle primarie Repubblicane per designare il candidato presidenziale che in novembre sfiderà Barack Obama ha un solo concorrente, Mitt Romney. Certo, Newt Gingrich e Ron Paul restano formalmente in corsa, ma nessuno di loro ha più possibilità di spuntarla contro l’ex governatore del Massachusetts. In gara, infatti, Gingrich e Paul restano e resteranno finché le loro risorse economiche lo permetteranno solo nel tentativo di condizionare quanto più possibile i temi della campagna elettorale, ma il rischio che ciò sia oramai solo un beau geste è adesso altissimo.
Il 24 Aprile si è votato in Connecticut, Delaware, New York, Pennsylvania e Rhode Island. Ovvero il fior fiore della Costa Orientale. Superfluo a questo punto ricordare che si tratta di Stati dove l’elettorato Repubblicano medio è più favorevole ai candidati centristi che ai conservatori granitici. Competizioni fra le due ali del GOP, infatti, non ve n’è adesso più. Dopo quel voto, Romney non ha cioè ancora la maggioranza più uno dei delegati alla Convenzione nazionale del GOP di agosto in Florida, ma il numero dei delegati in suo possesso ora è tale da rendere matematicamente incolmabile la differenza che lo separa e (sempre più) lo separerà da quelli conquistati, ed eventualmente ancora conquistabili, da Gingrich e da Paul.
Dunque, a meno che Romney “inciampi” su stesso prima della Convenzione Repubblicana, nulla può negargli la nomination; e che ciò possa accadere forse non è nemmeno ipotizzabile in teoria. Del resto, qualora accadesse, si tratterebbe di un male le cui conseguenze nefaste si eserciterebbero per anni, non solo sul piano strettamente elettorale. Romney è quindi già il candidato presidenziale del GOP che sfiderà i Democratici. Lo è per totale abbandono preventivo del campo da parte dei suoi sfidanti, analogamente a quanto accadde nel 2008 a John McCain, il quale rimase l’unico Repubblicano disponibile su piazza poiché agli altri era scappato da ridere, in ciò determinando con largo anticipo una debolezza strutturale e irrecuperabile da parte dei Republicani? No. Almeno non ancora.
Romney, infatti, non si è affatto aggiudicato la nomination presidenziale Repubblicana perché è rimasto anzitempo solo nel campo delle possibilità reali del partito. Romney è oggi il candidato presidenziale in pectore del GOP, in attesa solo una vidimazione ufficiale che non può non avvenire, per avere trionfato al termine di una strenua e coraggiosa battaglia elettorale combattuta alacremente da tutti gli sfidanti che sono scesi sin dall’inizio nel campo delle primarie. Con McCain accadde invece l’esatto contrario.
Tutti i Repubblicani che sono scesi in campo nelle primarie Repubblicane del 2012, e che uno dopo l’altro si sono poi ritirati consegnando di fatto sin da ora a Romney la palma dell’investitura finale, e pure i due candidati che restano ancora rimasti in gara accanto a Romney più che altro per bandiera, si sono tutti spesi per intero, non hanno lesinato sforzi, si sono giocati faccia e impegno nel migliore dei modi e hanno pure saputo ritirarsi nel momento per loro più giusto, che pure ha coinciso con l’attimo oggettivamente più opportuno per tutti. Non hanno mai strafatto, non hanno tirato la corda oltremisura, non si sono incaponiti senza senso. Compresi Gingrich e Pual, che ancora restano in gara “per testimonianza”. Ebbene, tutto questo è il segno di una politica intelligente, nobile e bella. Comunque vada in novembre.
Romney è cioè oggi in testa essendosi sudato la vittoria. Con i suoi avversari interni che si sono analogamente sudati palmo a palmo la contestazione del suo primato ora inamovibile. L’intero processo delle primarie consegna cioè alla convention del GOP di agosto un candidato ben diverso dal debolissimo McCain che quattro anni fa si trovò improvvisamente a capitanare un esercito fantasma. Romney, almeno in questo, è già più forte del senatore dell’Arizona la cui sconfitta quattro anni fa consegnò il Paese al disastro Obama.
Le primarie hanno temprato Romney; Rick Santorum lo ha messo egregiamente alla prova; Gingrich e Paul lo hanno pungolato costantemente; e tutti gli altri candidati “minori” ritiratisi dopo le prime sessioni di primarie sono serviti sempre a creare l’ambiente giusto affinché una disfida maschia e seria potesse svolgersi tra i candidati “maggiori” senza esclusione di colpi, com’è nelle cose e com’è persino giusto, epperò tesa solo a modellare lo sfidante migliore (relativamente parlando: in politica spicciola non è mai infatti possibile parlare diversamente) da opporre alla sciagura Democratica.
Da oggi, allora, fatta salva la necessaria bandiera tenuta alta, finché saranno in grado di farlo, da Gingrich e da Paul, i Repubblicani non possono che fare intelligente quadrato attorno a Romney. Il momento delle divisioni interne, delle rivalità e delle pur importanti diversità di accenti politico-culturali deve essere oggi sospeso e rimandato ad altra data. Non mancherà certo l’occasione per riaprire il confronto, e a un certo punto sarà doveroso oltre che opportuno farlo; ma quel tempo non è adesso.
Dal canto proprio, Romney deve però pensare più che bene a come scegliersi il candidato alla vicepresidenza che soddisfi al meglio questi ragionamenti di tutt’altro che piccolo cabotaggio, e pure la squadra di possibile governo con cui si candida a sfidare Obama per un governo migliore e “più americano” degli Stati Uniti. Se tutto ciò verrà fatto in maniera oculata, la forza garantita a Romney da queste primarie opportunamente roventi verrà decuplicata e raffinata. Se invece questo non accadrà, Romney perderà tutta la forza finora accumulata e si trasformerà in un clone dello spettrale McCain di quattro anni fa.
Chi farà la differenza decisiva tra il primo rovinoso scenario e la seconda felice prospettiva sono i conservatori, quel mondo variegato e anche litigioso ma sempre “profetico” che non coincide mai con l’elettorato del GOP ma che ne sa condizionare, ispirare e pure incarnare “sezioni” determinanti per il bene comune del Paese più potente del mondo.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana