Romney prende Maryland, Wisconsin e D.C.: ora la nomination è più vicina
05 Aprile 2012
Il voto del 3 Aprile è stato l’ultimo prima della lunga pausa elettorale che con un balzo porterà le primarie Repubblicane al 24, sempre di aprile, allorché si aprirà la seconda e ultima fase del confronto. Si è votato in Wisconsin, Maryland e Distretto di Columbia. In Wisconsin, Mitt Romney ha vinto con il 43% dei suffragi (pari a 305.740 voti), Rick Santorum è arrivato secondo con il 38% (270.686 voti), Ron Paul terzo con il 12% (83,969) e Newt Gingrich quarto con il 6% (43.893 voti).
In Maryland, Romney ha vinto con il 47,7% dei suffragi (pari 93.335 voti) sul 30% di Santorum (58.629 voti), l’11,1% di Gingrich (21.787 voti) e il 9,7% di Paul (18.927 voti). Nel Distretto di Columbia, Romney ha trionfato il 70,18% dei suffragi (3.121 voti) contro il 12,05% di Paul (536 voti) e il 10,68% di Gingrich (475 voti). Qui Santorum non era candidato, non essendo riuscito a soddisfare i requisiti di legge necessari per la presentazione della propria lista.
Ancora una volta, insomma, Romney vince ma non convince sino in fondo, pur avanzando imperiosamente nel numero totale dei delegati che gli servono per conquistare la nomination presidenziale del partito. Ciò che davvero conta è questo secondo dato (il numero dei delegati alla Convenzione nazionale del GOP di agosto), ma anche il primo (le vittorie quasi sempre di misura che egli ottiene sul territorio) può pesare non poco. Benché sia la matematica a determinare chi in novembre sfiderà Barack Obama per la Casa Bianca, non tutto infatti è solo matematica.
In questo senso, i dati del Wisconsin e del Maryland parlano chiaro. Romney l’ha appena spuntata, concedendo moltissimo (addirittura – per le sue ambizioni – troppo) al suo sfidante più agguerrito, Santorum. Altro elemento di notevole valore simbolico è quello relativo dal Distretto di Columbia, il fazzoletto di terra a suo tempo delimitato ritagliando aree edificabili dagli Stati circostanti onde erigere la capitale federale del Paese su territorio “neutro”.
La città di Washington è il volto “burocratico” degli Stati Uniti: è la sede del governo, dei ministeri, delle molte (troppe) agenzie federali e pure di numerosi tra quegli organismi privati (fondazioni, enti della “società civile”, advocacy group) che hanno la forza (i denari) per metter su casa in uno dei luoghi più costosi degli States allo scopo di stare vicini alla politica politicante e in questo modo esercitare al meglio la propria azione, sia essa di lobby o di watchdog (che a volte è la stessa cosa). Washington è insomma il cuore del potere (anche se non del business), la “Roma degli USA”.
In verità, molti americani la sentono “lontana”, se non altro dalla sensibilità dell’“americano medio”, della middle class, dei paterfamilias: cosa vera sino a un certo punto, ma tant’è per milioni di cittadini. Ebbene, che il 70% dell’elettorato Repubblicano residente della capitale federale scelga Romney, conferma una volta in più l’indirizzo preso dai settori più “di apparato” del GOP; e che lì il margine di vittoria per Romney sia uno dei più alti in assoluto di tutte le primarie sin qui svolte, rafforza notevolmente la percezione.
Ora, i recenti endorsement per Romeny pronunciati da personaggi di primo piano del GOP sono segnali che vanno nella stessa direzione. Che George W.H. Bush sr., e pure Jeb Bush, l’ex governatore della Florida, abbiano deciso di sostenere la candidatura presidenziale dell’ex governatore del Massachusetts alla vigilia del voto del 3 aprile, seguiti anche del giovane senatore “rampante” della Florida Marco Rubio (qualcuno ne ha già fatto il nome per una eventuale candidatura alla vicepresidenza accanto a Romney…), indicano che l’establishment del partito e i media filo-Repubblicani (a cui seguono subito i donatori di grosso taglio) hanno scelto.
Epperò vi è una differenza sostanziale negli endorsement pro-Romney pronunciati da certi membri notori dell’“apparato” del GOP, quali il senatore Robert Dole, e quelli pronunciati dai Bush oggi. E quella differenza è il tempo. L’appoggio di Dole, dato settimane fa, fu visibilmente ideologico, quello dei Bush oggi è assolutamente pragmatico. A quest’ora del calendario delle primarie è insomma naturale, anzi praticamente fisiologico, che i nomi grossi del partito (coincidenti o meno con il suo gotha) escano allo scoperto, schierandosi con il candidato che ha sinora racimolato più delegati utili a battere i concorrenti, ovvero quello che detiene la pole position per ottenere la nomination presidenziale.
È come se dentro le primarie, ve ne fossero altre. Le primarie “maggiori” sono quelle dove l’elettorato Repubblicano vota il candidato che preferisce, in tutte le circoscrizioni elettorali esistenti e sino all’ultimo giorno utile; le primarie “minori” sono quelle che si svolgono grosso modo fino a metà percorso e che di fatto impongono anzitempo il front-runner, pur debole come lo è Romney quest’anno. Queste secondo primarie “minori” sono quelle che, appunto per l’esito parziale ma sostanziale che oggettivamente sanciscono, servono ai nomi grossi del partito (che coincidano o no con il suo “apparato”) per decidere il proprio posizionamento.
Non è cinismo, ma realismo. I nomi grossi e l’establishment di un partito servono a vincere le elezioni finali, non solo le pur sacrosante disfide interne fra anime e correnti diverse. A questo punto, viene però legittimo chiedersi come mai, pur con tutte le importanti considerazioni di contorno che si possono e forse pure si debbono lecitamente fare, Santorum, e a maggior ragione Gingrich e Paul, non si ritirino da una competizione che per loro (e per il loro partito) è ormai chiusa.
A oggi la risposta è anzitutto che così avviene perché personaggi come Santorum, Gingrich e Paul non vivono di solo partito, ma soprattutto di gente; in secondo luogo avviene così perché, matematica a parte, Santorum, Gingrich e Paul ritengono di avere ancora un ruolo importante da svolgere nel condizionare la qualità della sfida a Obama, per esempio in sede di scrittura della piattaforma programmatica che si farà durante la Convenzione del GOP a Tampa, in Florida.
Ma vi è pure una terza considerazione. Quanto sta accadendo oggi nelle primarie Repubblicane rivela una capacità d’incisione nel profondo che supera di gran lunga, pur ovviamente senza negarle, le questioni contingenti. Ciò a cui si sta tutti assistendo, consapevoli e non, è la fase finale della trasformazione dell’intero partito. E le crisi che ne emergono sono solo i problemi legati all’età dello sviluppo che migliorano generalmente con la crescita.
Comunque vada alla fine delle primarie, ma pure a novembre con la sfida per la Casa Bianca, ciò che ne verrà fuori dopo sarà un partito sempre più conservatore, il quale avrà al proprio interno praticamente eliminato per intero e da tempo l’ala liberal e che lo stesso si appresterà a fare con le correnti centriste, oggi rappresentate da Romney. Il dato più evidente adesso è che il partito si divide tra un centro e un’ala destra, frazionata in quei molti, troppi rivoli che sono la ragione maggiore della sua incapacità di vincere.
Il futuro del GOP sarà però un monocolore conservatore, in cui i candidati si sfideranno a chi lo è più e meglio degli altri. A quel punto, ciò che è vero da più di 60 anni (e cioè che l’elettorato conservatore è capace di condizionare sempre più fortemente le politiche del GOP, ma incapace di vincere in prima persona) non sarà più vero. E questo capiterà anche se, una volta scelto Romney per sfidare Obama, il GOP dovesse perdere il confronto diretto con i Democratici.
Tutto dipenderà da come, qualora vincesse, Obama vincerà. Perché se Obama dovesse vincere puntando al centro dello spettro politico (dove di solito si vincono tutte le sfide elettorali), ne uscirà sconfitta l’opzione Romney e fortissima l’ala destra del GOP. Se invece Obama dovesse vincere tenendo la barra decisamente a sinistra (cosa improbabile), ne uscirebbe sconfitta non l’ala destra del GOP, ma il Paese intero. Sarebbe ben più grave, ma a quel punto ai conservatori non resterebbe che prendere atto del vento sfavorevole e lavorare per farlo girare. Un lavoro da fare cioè al di fuori di sé.
Se invece a vincere dovesse essere Romney, la battaglia interna al GOP fra centristi e conservatori proseguirebbe procrastinando solo di un po’ l’esito finale. Perché – eccolo il primo pronostico della stagione 2012 – se contro Obama vincesse, Romney lo farebbe certamente ancora una volta solo di misura.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana