Romney può davvero diventare presidente. Tampa lo ha reso più forte

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Romney può davvero diventare presidente. Tampa lo ha reso più forte

31 Agosto 2012

Con il discorso alla Convenzione nazionale del Partito Repubblicano, svolto a Tampa il 30 agosto, Mitt Romney ha assunto ufficialmente il comando dell’opposizione a Barack Obama e da qui al voto del 6 novembre dovrà giocarsi al meglio tutte le carte che ha disposizione onde ottenere il vantaggio necessario a conquistare la Casa Bianca, racimolando anche le più sparse, scegliendo nei vari mazzi le più adatte, soppesandole bene una a una. Ora, cioè, è in caccia di voti.

Per questo la seconda fase delle presidenziali americane 2012, quella che s’inaugura oggi, è delicatissima. Per vincere la Casa Bianca servono numeri, e tanti, sia a Obama sia a Romney. Per spuntarla, Obama non potrà che sterzare visibilmente a sinistra: già gran parte del suo elettorato è deluso dal vorrei-ma-non-posso praticato in troppe occasioni dal presidente in carica e, per uscire dal cul-de-sac, l’ex senatore dell’Illinois non può più permettersi il lusso di temporeggiare, che tradotto in politichese si dice “puntare al centro”. Sul versante opposto, Romney non potrà allora che virare sensibilmente a destra, per amore o per forza.

Ma se i freddi ragionamenti a priori fossero sufficienti a dirigere la politica, non si verificherebbero mai quei colpi di scena cui invece si assiste non di rado. Passa cioè molto fra il dire qual è la cosa giusta da fare e il farla. In questo iato, Romney, che altro non può e non deve fare adesso che puntare decisamente l’ago della bussola verso l’elettorato più conservatore e convincere gl’indecisi di quell’orientamento, potrebbe anche maldestramente finire per fare altrimenti.

La smania d’incassare voti, infatti, gioca sovente brutti scherzi, e non è insolito che un candidato politico che ha seguito – sempre per amore o per forza – un determinato indirizzo muti improvvisamente orientamento. La prudenza, certo, è la prima delle virtù politiche, ma non la si può prescrivere come una medicina.

Ora, i temi su cui Romney, per fare cassa elettorale, potrebbe scivolare oggi rovinosamente si dividono in due macroaree: le questioni quelli di natura economico-fiscale e i “princìpi non negoziabili”. All’estero sembra sempre di no, ma negli Stati Uniti sono argomenti costantemente all’ordine del giorno entrambi, anzi intimamente uniti.

Su tutt’e due le macroaree, però ‒ inutile negarlo ‒, pende un forte consenso “di sinistra”, o quantomeno pesa un’allure diversa da quella tipica del mondo conservatore. Per colpa o per ignoranza, molti elettori americani pensano cioè ancora che il mercato sia “rapace”, che lo Stato sia allora sempre la soluzione buona e che l’anarchia sfrenata sia la vera libertà. C’è seriamente da dubitare che questo fronte rappresenti (sia esso in buono o cattiva fede) la maggioranza numerica degli americani, ma è certamente quello più chiassoso, danaroso e ammanicato. Un uomo politico, dunque, in cerca della massimizzazione del risultato elettorale potrebbe scambiare lucciole per lanterne, sbandando verso una malintesa voglia di consenso facile.

È questo che temono maggiormente i conservatori adesso: che, ottenuto a destra il crisma della nomination, Romney coccoli voti “di sinistra”, oppure, peggio ancora, che racimoli da qui a novembre voti di destra per poi, se vincesse, governare più a sinistra. Per fugare il secondo pericolo c’è solo la speranza, ma per allontanare il primo dubbio ci vogliono ragioni forti. Per questo a Tampa Romney ha tenuto il discorso che ha tenuto.

A Tampa, infatti, Romney ha prospettato con rigore politico e dirittura morale le condizioni necessarie a creare quei nuovi posti di lavoro di cui gli Stati Uniti hanno bisogno come l’aria per respirare. Non certo usando le fallimentari ricette dell’Amministrazione Obama, ma perseguendo con pervicacia lo snellimento degli apparati burocratici statali che fermano la crescita e che azzoppano la ripresa. Per Obama, ha detto Romney, i posti di lavoro sono sempre e solo una questione d’impieghi statali, da distribuire magari secondo criteri clientelari, addossandone i costi alla società: ma in verità sono una questione d’intrapresa coraggiosa, pure di rischio, quindi d’investimenti, tutte cose però impossibili in condizioni di pressione fiscale esagerata, di servizi scadenti e corrotti, di spesa pubblica dispersiva. Così dicendo, Romney ha dunque convinto persino il senatore Rand Paul, libertarian (e antiabortista) beniamino dei “Tea Party”, figlio dell’uomo che sul piano economico più ha dato filo da torcere a Romney nelle primarie, ovvero Ron Paul (il quale, onorevolmente coerente con sé stesso, nega infatti ancora l’appoggio a Romney).

Incassato il risultato, Romney ha così tanto significativamente quanto seccamente subito dopo affermato: "Da presidente proteggerò la sacralità della vita. Onorerò l’istituto del matrimonio. E garantirò la prima delle libertà americane: la libertà di religione". Papa Benedetto XVI non potrebbe che applaudire sonoramente questo cristallino programma politico ‘mormone’, inusuale persino a latitudini geopolitiche più cattoliche.

Nelle prossime settimane Romney deve allora fare di tutto per dimostrare di non essere un ciarlatano né sul piano economico-fiscale, né sui ‘princìpi non negoziabili’. I voti di cui ha bisogno per sconfiggere Obama ci sono; Romney sa anche dove stanno; sa bene pure che parole come le sue alla Convenzione Nazionale del Partito Democratico, in programma dal 3 settembre a Charlotte, in North Carolina, non se ne sentiranno; quindi se smarrisse per strada un pezzo decisivo del suo possibile elettorato sarebbe davvero solo tutta colpa sua. Lo cogliesse qualche dubbio, si consultasse con il suo vice Ryan, che di entrambe le macroaree è un intenditore provetto. E però, di grazia, lasciasse subito perdere quei mezzucci meschini mostrati nei confronti della base conservatrice del GOP nel tentativo, profuso attraverso i comitati di partito che egli saldamente controlla, di modificare le regole di attribuzione dei delegati che i vari candidati alla nomination si contendono durante le primarie e ciò a tutto vantaggio dell’establishment.

Un ultimo importante pensiero non può però che correre alla grande assente di questa Convenzione Repubblicana, Sarah Palin. Non manca perché non la vogliono, non si nasconde perché è un’oca, non latita perché è scontenta. Più e più volte, per iscritto e a voce, ha detto di sostenere lealmente il ticket Romney-Ryan. A Tampa la Palin non è andata perché ha scelto di concentrare tutti i propri sforzi nell’opera di reclutamento di tutte quelle frange conservatrici che possono fare la differenza e che ancora, nonostante tutto, il GOP lascia troppo sole. La Palin, insomma, ha scelto di restare nell’ombra per il bene della causa, che è sempre più nobile di qualsiasi ego. La Palin ha già salvato il GOP dal disastro nel 2008; Romney e Ryan potrebbero dover presto ringraziare tipi come lei ‒ che dimostrano che essere (tenuti) fuori dalla “stanza dei bottoni” non significa trasformarsi in traditori ‒ se quel disastro dovesse essere rinviato una volta in più.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana