Romney si prende l’Illinois e Santorum deve rifarsi subito in Louisiana
21 Marzo 2012
L’Illinois premia Mitt Romney, e Rick Santorum, lo “sfidante”, pensa già a come rifarsi Sabato 24 marzo in Louisiana, uno Stato del Sud che, sulla carta (ma le vittorie già ottenute in Alabama e in Mississippi il 13 marzo dicono non solo su quella), gli è assai più favorevole dell’industrializzato Stato di Abraham Lincoln (1809-1965) dove si è votato Martedì 20 marzo. E pensa pure alla lontana (nel tempo) Pennsylvania, il suo “home State” dove spera di fare benissimo (e se non fosse così, sarebbe uno smacco enorme più d’immagine che di sostanza).
La Pennsylvania voterà il 24 marzo assieme agli altri Stati del New England che ancora non lo hanno fatto (Connecticut, Delaware, New York e Rhode Island), cioè in un terreno che per Santorum è infido e che invece a Romney è mediamente più favorevole. Il “salto” al 24 aprile avverrà dopo una lunga pausa di una quindicina di giorni, dopo che il 3 aprile avranno votato il Distretto di Columbia (il territorio della capitale federale Washington), il Maryland e il Wisconsin. Poi il tour delle primarie tornerà a quel che resta degli Stati centrali e del Sud (con il poderoso Texas che vota il 29 maggio, l’enorme California che vota il 5 giugno e lo Utah che chiude il giro il 26 giugno).
In Illinois Romney ha ottenuto il 46,72% dei suffragi (pari a 428.434 voti), Santorum è arrivato secondo con un importante il 35,01% (321.079 voti), terzo si è piazzato Ron Paul con il 9,32% (85.464 voti) e quarto è giunto Newt Gingrich con un ben più magro 7,95% (72.942 voti). Solo qualche giorno prima, Domenica 18 marzo, Romney aveva incassato anche il risultato pieno di Puerto Rico dove ha vinto con un enorme 82,70% (102.454 voti), battendo lo striminzito 8,18% di Santroum (10.138 voti). Sull’isola, Gingrich e Paul sono stati dei veri fanalini di coda, superati addirittura da altri candidati improbabili, presentatisi all’elettorato solo in quell’occasione.
Per completezza di cronaca, va inoltre ricordato che anche il Missouri ha votato sabato 17 marzo. E per la seconda volta. Anzi, per la precisione, in quella data il Missouri a cominciato a ri-votare … Lo Stato aveva infatti già celebrato le primarie il 7 febbraio, consegnando la vittoria piena a Santorum. Ma si trattava di un “beauty contest”, come viene chiamata quella sfida, cioè di una gara poco più che “di eleganza”: non servì per aggiungere aritmeticamente al conto di alcuno dei candidati in lizza delegati utili alla Convenzione nazionale del GOP di agosto, ma esercitò un effetto psicologico e propagandistico enorme.
Dopo quelle primarie, dunque, il Missouri ha celebrato anche i caucus (è l’unico Stato che svolge entrambi i rituali di voto delle primarie, e questo per effetto della sovrapposizione di regole interne di partito), cominciando mercoledì 17 marzo per quindi concludere il 24. I risultati saranno però resi noti in giugno, praticamente quando le primarie saranno definitivamente concluse. Insomma, continua l’“eterna” altalena tra i due protagonisti indiscussi di queste primarie Repubblicane 2012, e tutto il pregresso resta confermato: Romney è in testa, Santorum rimane secondo e la forchetta che divide i due è in costante allargamento.
Oggi come oggi, dunque, Romney, rispetto a Santorum, conta circa il doppio dei delegati utili a ottenere la nomination presidenziale del GOP, cifra che adesso è circa la metà del numero dei delegati necessari a varcare la soglia della maggioranza numerica. A conti fatti, significa che l’elettorato Repubblicano è sempre più convinto dell’“eleggibilità” di Romney contro Barack Obama in novembre, ma anche che una parte di quello stesso elettorato ha, strada facendo, cominciato a pensare che proprio ineleggibile Santorum non lo sarebbe.
Non molti la pensavano così all’inizio della corsa, quando si votò in Iowa il 3 gennaio, e però già li andarono in scena sorprese inattese; le “predizioni” su Romney hanno poi cercato di tagliare fuori definitivamente Santorum per convincere tutti che Romney e solo Romeny conta su una specchiata possibilità di vincere alla fine la Casa Bianca; eppure la capacità di Santorum d’inserirsi negli interstizi facendone virtù ha ottenuto successi tali da incrinare quell’assunto e dunque, vittoria dopo vittoria, alternata a sconfitta dopo sconfitta, l’ex senatore della Pennsylvania non è certo riuscito a convogliare su di sé tutto il voto “realistico” (quello che mira a ottenere un candidato presidenziale sul serio in grado di impedire a Obama la rielezione), ma certamente ha fatto moltissimo per infrangere l’intoccabilità di Romney.
Ebbene, Romney è forse davvero l’uomo che potrebbe alla fine sconfiggere Obama, magari il più dotato di strumenti per farlo tra i Repubblicani oggi in corsa. Ma non è affatto “garantito in grazia”. Deve ancora conquistarsi elettore dopo elettore la fiducia “realistica” di tutti i Repubblicani, fra cui i componenti della sua ala destra. A destra ’“eleggibile” Romney deve infatti ancora e sempre sfondare, e in questo ambito sul suo capo qualche fardello di troppo pesa. Per esempio la riforma sanitaria da lui attuata quand’era governatore del Massachusetts, che molti, forse per lui troppi, da tempo bollano come indistinguibile da quella voluta dall’Amministrazione Obama.
Romney si difende dicendo che non è vero, e il suo entourage fa quadrato sostenendo che un conto è la riforma Romney, che si applicava a un solo Stato stante le esigenze specifiche di quello Stato, e un conto è l’Obamacare, che invece livella tutta la nazione sullo stesso piano, obbligando tutti a nuovi costi, non avendo mai risolto i dubbi sulla sua sostenibilità reale e per di più venendo pure a imporre l’immoralità e l’anticostituzionalità palesi di certe sue clausole. Qualcuno la ritiene una difesa liberal proferita con retorica conservatrice, ma il fatto è che il punto per Romney non cambia. La riforma sanitaria è il suo tallone d’Achille.
Ora, ricordando che il mondo conservatore non è nuovo a sottrazioni di appoggi decisivi ai candidati Repubblicani in corsa quando e se non li trova accettabilmente in linea con il proprio credo, e questo anche al prezzo di consegnare il Paese alle Sinistre, sarà bene che, tra una vittoria e l’altra (sua e di Santorum…), Romney metta mano al problema.
Uno che sul punto può dargli ottime lezioni di buona strategia coincidente con il rigore morale è proprio Santorum, l’uomo che si è candidato alla presidenza degli Stati Uniti avendo il coraggio e la freddezza per affermare in diretta televisiva davanti a milioni di persone di tutto il mondo che, da senatore federale in rappresentanza della Pennsylvania, a suo tempo votò leggi che non avrebbe invece dovuto votare, che fece errori di cui si è pentito, che certe mosse politiche ora non le ripeterebbe affatto. La confessione pubblica è una virtù che fa del conservatorismo uno stile nobile di vita, non una tecnica ideologica per la conquista fine a se stessa del potere.
Romney deve insomma comprendere che anche l’aspetto morale di quel “kit del perfetto conservatore” su cui da tempo si sta diligentemente applicando va studiato bene, se vuole conquistare il cuore e non solo la mente di certo elettorato.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana