Romney vince il ‘Super Tuesday’ e gioca sulle divisioni dei conservatori

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Romney vince il ‘Super Tuesday’ e gioca sulle divisioni dei conservatori

08 Marzo 2012

La vera notizia del “Super Tuesday” è che non ci sono novità. I rapporti di forze tra i candidati Repubblicani rimangono uguali a quelli di prima. Nel tour elettorale degli Stati Uniti, Mitt Romney continua a indossare la maglia rosa. A distanza sostanzialmente costante lo tallona Rick Santorum, l’“eterno secondo”. Che sia lui l’uomo staccatosi con una certa nettezza dal gruppo degl’inseguitori è così da tempo. Le sue vittorie del 6 marzo in Tennessee, Oklahoma e North Dakota sono importanti, ma non inattese. E Santorum si conferma l’uomo che raccoglie i suffragi della “pancia” conservatrice dell’America.

Alle loro spalle, staccati, di un bel po’, corrono Newt Gingrich e Ron Paul, che si alternano nel ruolo di guastatori. Era così prima del “Super Tuesday”, resta così anche dopo. Ogni previsione della vigilia, insomma, si è puntualmente verificata. Se nulla infatti è mai scontato, quella di Gingrich in Georgia era però una vittoria più che annunciata: l’ex presidente della Camera federale è originario di Harrisburg, in Pennsylvania, ma la sua carriera prima universitaria e poi politica l’ha costruita in Georgia.

Previsti erano anche i successi di Romney in Vermont e in Massachussetts, dove l’ex governatore, pur originario del Michigan, ha colto una vittoria con margine enorme ma assolutamente comprensibile. Si tratta del resto di Stati del New England, dove è facile preferiscano Romney a un Santorum. In teoria la Virginia avrebbe pure potuto fare altro rispetto ai risultati presentati il 6 marzo, esattamente come l’Idaho, l’Alaska e il Wyoming: ha vinto Romney, ma Santorum avrebbe potuto sperare di più. Appunto però in teoria.

Al lato pratico, cioè nelle primarie 2012, il successo di Romney era dato per scontato anche a quelle latitudini “di provincia”. E che l’Ohio sarebbe stato terreno di contesa era da tempo un’altra evidenza a tutti; che alla fine abbia vinto Romney, pur di stretta misura su Santorum, è un risultato perfettamente in linea con il trend generale.

In tutto, sono stati infatti interessati dal voto 11 Stati. Dieci hanno votato il 6 marzo (Alaska, Georgia, Idaho, Massachusetts, North Dakota, Ohio, Oklahoma, Tennessee, Virginia e Vermont), uno – il Wyoming – ha cominciato a farlo in quella stessa data e a farlo continuerà – attraverso un “caucus lungo” – fino al 10 marzo, forte peraltro dell’indicazione già espressa tra l’11 e il 29 febbraio (Romney primo, Santorum secondo, Paul terzo e Gingrich quarto).

Complessivamente, da assegnare attraverso il voto popolare (che alcuni Stati valutano con criterio maggioritario e altri con criterio proporzionale), erano in palio 416 delegati; ulteriori 21 erano invece ad appannaggio diretto del partito. A questi 416 + 21 delegati se ne aggiungeranno poi, in aprile, altri 26 + 3 (quelli del Wyoming). A tutto ciò va peraltro aggiunto anche il risultato dei caucus celebrati il 3 marzo nello Stato di Washington e vinti da Romney (con un grandioso Paul secondo, Santorum terzo subito a ridosso e Gingrich quarto, più arretrato).

Il passaggio del “Super Tuesday” era dunque oggettivamente importante, eppure meno che in altri anni in cui a votare assieme erano molti più Stati (e quindi molti di più anche i delegati da assegnare in blocco). Ciò ne ha in parte un po’ stemperato la natura di “punto del non ritorno”.

Qual è dunque la notizia del giorno dopo un giorno in cui tutto si è mantenuto stazionario? La notizia è la conferma che ci troviamo in un anno di elezioni americane parecchio straordinario. Un anno di primarie in cui siamo oramai abituati a vedere i successi distribuiti a macchia di leopardo, cosa che però in sé è non comune.

Certo, Romney è in testa, e a questo punto ci resterà. Ma che alle sue spalle ancora si riesca a sfidarlo apertamente è un’anomalia. Virtuosa. Che i suoi oppositori ancora riescano a vincere Stati interi anche. Che quando non vincono riescano comunque a ottenere sempre piazzamenti significativi pure. Che l’ordine dei “cadetti” non sia mai scontato, ovvero che Santorum, Gingrich e Paul si superino costantemente l’un l’altro, aggiudicandosi nel complesso fette di elettorato equipollenti sul piano simbolico, indica che i votanti Repubblicani ancora non danno per scontato che il candidato da opporre a Obama sia Romney.

A questo punto, potrebbe davvero andare a finire che Romney la spunterà di poco, risultando così un colosso dai piedi di argilla. Al che s’impongono due considerazioni.

La prima è che ciò che fino a oggi gli avversari Democratici dei Repubblicani in gara con le primarie hanno solo propagandisticamente sventolato a proprio vantaggio (ma avendo ben poche ragioni per farlo), potrebbe trasformarsi in realtà. Le divisioni in campo Repubblicano potrebbero rischiare cioè di avvantaggiare seriamente Obama.

Epperò anche questo potrebbe essere un falso problema. Il vedere il voto Repubblicano molto frastagliato, e un Romney che vince ma che non convince, è un fattore che mette in luce le divisioni e la potenziale debolezza del prescelto finale. Eppure non è che il prescelto finale risulterebbe più forte se al posto di un voto condiviso con i suoi sfidanti interni vi fosse il non voto. Forte o debole che Romney alla fine risulti, la cosa dipende molto più da lui, e in parte dall’elettorato Repubblicano, non invece dai suoi sfidanti interni. I quali al massimo mettono in luce – e non causano ‒ la sua debolezza.

La seconda è che, pur decisi a battere Obama a ogni costo (e questo oggettivamente fa il gioco di Romney), gli elettori Repubblicani si mostrano inquieti. Non si sentono pienamente e uniformemente rappresentati da alcuno dei candidati in lizza, soprattutto non lo è la Destra da Romney. Magari parte della Destra vota Romney lo stesso, ma questa è di per sé un’altra faccenda.

Dire che l’elettorato Repubblicano, e in specie la sua ala destra, non si sente in toto rappresentato dai candidati in corsa in queste primarie non significa però nemmeno dire che da quei candidati non è, nel complesso, soddisfatta. Da un lato, infatti, l’offerta di una torta troppo golosa a troppi commensali assottiglia le fette aumentandone solo il numero; dall’altro, la Destra conservatrice che vota Repubblicano mostra con chiarezza lampante di essere alla ricerca di un candidato che sappia indossarne in politica l’insieme delle sue anime (talvolta fra loro litigiose, talaltra abbondantemente sovrapponibili).

La Destra conservatrice che vota Repubblicano non ha oggi insomma ancora il candidato proprio. Ne ha molti, e questo è un altro paio di maniche.

Dicendo che pur di battere Obama parte di essa sceglie di premiare Romney per mera realpolitk e senza trasporto ideale si dice sempre il vero, ma resta comunque un vero parziale. Il sottointeso è che, vada come vada, accontentandosi, la Destra conservatrice rinuncia a far vincere un uomo suo: una volta per strategia, un’altra per convinzione, insomma alla fine sempre. Ma non è vero; soprattutto perché la cosa, detta così, è detta male.

Prima di ogni candidato unitario, la Destra conservatrice necessita infatti di padri culturali di riferimento unitari. In tempi in cui la Destra conservatrice è stata capace di stringersi attorno a un uomo politico potenzialmente unitario, lo ha fatto perché in qualche modo aveva a monte raggiunto un inizio di unità culturale. Che oggi i conservatori non riescano a trovare quell’uomo significa che sono divisi sul piano culturale. Ora, se questo è certamente vero, nemmeno va però estremizzato.

Ciò che con sicurezza il momento presente dunque evidenzia è: a) che i conservatori debbono fare un salto di qualità nella ricerca dell’unità culturale, potenziando al massimo quanto seminato e raccolto in mezzo secolo di vita e cioè anche ricuperando pezzi persi lungo la strada; b) che debbono trasferire tutto ciò sul piano politico, re-imparando come e perché; c) che devono farlo adesso che il GOP vive un momento decisivo e delicato, vale a dire la fine della maturazione storica del suo spostamento a destra, che è un punto d’inizio e non un punto di arrivo.

Quest’ultima variante complica le cose, ovvero le articola. Non è detto che sia un male. Anzi, di solito da cose così viene un gran bene. L’unica cosa che manca davvero, l’unico vero problema serio adesso è il tempo. Barack Obama potrebbe approfittarne. Se accadesse, il GOP dovrà incassare bene e approfittare del tempo supplementare messo a sua disposizione in modo tanto paradossale per fare ciò che (sa che) deve. Come accadde nel 2008 delle presidenziali, così che il 2010 delle elezioni di “medio termine” fu straordinario.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.