Romney vince in Nevada e il Tea Party inizia a dargli una mano

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Romney vince in Nevada e il Tea Party inizia a dargli una mano

06 Febbraio 2012

Mitt Romney ha vinto i caucus dello Stato del Nevada, svoltisi sabato 4 febbraio, con più o meno il 48% dei suffragi espressi: al secondo posto si è piazzato Newt Gingrich con circa il 23%, terzo è giunto Ron Paul con circa il 18% e quarto è arrivato Rick Santorum con circa l’11%. Essendo i seggi scrutinati all’ora in cui scrivo poco più del 70% (le diverse contee dello Stato hanno votato con orari differenti), nelle prossime ore qualche dettaglio certamente cambierà. La sostanza però resta. Il Nevada è il terzo stato, non consecutivo, vinto da Romney dopo il New Hampshire e la Florida.

Assai più difficile è invece calcolare con sicurezza il numero dei delegati guadagnati dai diversi candidati in lizza per la Convenzione nazionale del Partito Repubblicano che, a fine agosto a Tampa, in Florida, designerà lo sfidante di Obama. Vari sono infatti i criteri con cui nei diversi Stati il GOP assegna i delegati di volta in volta in palio: al netto dei cosiddetti “superdelegati” (3 in numerosi ma non in tutti gli Stati dell’Unione che, ad appannaggio diretto del partito, appoggiano uno dei candidati in lizza indipendentemente dall’esito del voto popolare), in alcuni Stati i delegati votabili a livello popolare vengono assegnati con criterio maggioritario mentre in altri seguendo la ratio proporzionale.

Se negli Stati che votano con il sistema maggioritario è semplicissimo capire subito quanti delegati conquista chi vince le consultazioni (basta una proiezione ben fatta del nome del vincitore), negli Stati con il proporzionale occorre invece attendere con scrupolosa meticolosità che sia stata spogliata anche l’ultima scheda. Ora, il conto sarebbe in teoria piuttosto facile pure negli Stati del proporzionale (si tratterrebbe appunto di attendere solo qualche ora), ma invece si complica in quegli Stati che, oltre a usare il sistema proporzionale, chiamano il proprio elettorato a esprimersi attraverso il sistema dei caucus. Perché i caucus sono di fatto delle “primarie consultive”, e né obbligano rigidamente i delegati scelti, né vincolano con mandato imperativo il partito ad attribuire con criterio limpidamente matematico i delegati.

Alcune delle maggiori testate giornalistiche statunitensi di portata internazionale – l’agenzia di stampa Associated Press, nonché le reti televisive CNN, MSNBC e Fox News – offrono ai lettori stime che però sono appunto solo proiezioni; oggi come oggi, dopo la celebrazione delle consultazioni elettorali nel quinto Stato dell’Unione segnato sul calendario delle primarie 2012, di davvero definitivo vi è solo il numero di delegati attribuiti dagli Stati che hanno votato con il maggioritario (la Florida) oppure con il proporzionale non alterato dalla variabile caucus (New Hampshire e South Carolina). Tutto ancora (e per molto) da stabilire è cioè quanti candidati sono stati vinti da quali candidati nei caucus sia dell’Iowa – la cui complessità tradizionale è quest’anno stata ulteriormente aumentata dalla seconda conta dei voti che ha determinato un cambio di vincitore – sia del Nevada.

Un primo piccolissimo bilancio dell’andamento delle primarie però lo si può ragionatamente fare. Perché se per un tal candidato sventolare davanti al pubblico quanti Stati egli ha conquistato fino a oggi è certamente cosa di grande effetto, quel che a ogni candidato davvero importa è il numero dei delegati accumulati Stato dopo Stato. Ovvio, alla fine i due conteggi saranno allineati: chi avrà vinto più delegati avrà verosimilmente vinto più Stati. Ma le primarie sono un work in progress, e quindi i risultati “parziali” contano tantissimo: condizionano, proiettano, foraggiano o sbancano il voto successivo. Così, nel mentre questo percorso si svolge, chi riuscisse a mostrare agli elettori di Stati che ancora debbono votare di avere già conquistato un ottimo numero di delegati, al di là del numero assoluto degli Stati vinti (di nuovo: i due conti si riallineano alla fine, talvolta anche prima, in certi casi non si discostano del resto mai), potrebbe sottilmente giocare di psicologia e di propaganda.

Oggi Romney è in testa nel conto totale sia degli Stati vinti (3, contro 1 a testa di Gingrich e di Santorum) sia dei delegati ottenuti (da determinare quanti, però certamente la maggioranza), ma gli sfidanti che magari non riescono a disarcionarlo possono ancora sperare di stuzzicarlo se riescono a fare bene negli Stati dove la legge proporzionale per l’assegnazione dei delegati consente spazi di manovra.

Su ciò puntano adesso Gingrich, Paul e Santorum, che ovviamente sperano di battere Romney, ma che più verosimilmente otterranno il massimo loro possibile se riusciranno a condizionarne contenutisticamente la corsa. 

Certo, nulla è ancora detto per nessuno. Possibile però è che Romney abbia alla fine i numeri utili a ottenere la nomination presidenziale del partito. Ciò che però ancora impedisce a questa possibilità di essere già una certezza è il fatto che alcuni Stati tanto grandi da mettere in palio pool di candidati che da soli possono fare la differenza debbono ancora votare. Il fatto di avere radunato attorno a sé una constituency tutt’altro che irrisoria è ciò che ora motiva i candidati del GOP anti-Romney a proseguire con piglio: in occasioni e in tempi diversi, infatti, Gingrich, Paul e Santorum hanno tutti e tre dimostrato di sapere chiamare a raccolta numeri elettorali importanti.

Avessero totalizzato percentuali diverse, sarebbero tutti e tre già fuori dai giochi per somma negativa di psicologia e matematica. Così è del resto successo a Michele Bachmann, Jon Huntsman e Rick Perry. Ma i suffragi sin qui ottenuti da Gingrich, Paul e Santorum non sono facilmente trascurabili da nessuno (Romney compreso). L’anomalia delle primarie 2012 è dunque che sono ben tre i candidati “cadetti” in grado di dar fastidio al front-runner, e che lo fanno alternandosi alla testa della sfida. La vittoria di Santorum in Iowa (ingigantita sul piano psicologico per essere venuta dopo la riconta dei voti che aveva erroneamente prima consegnato la vittoria a Romney), quella di Gingrich in South Carolina e i piazzamenti notevoli costantemente fatti registrare da Paul, non da ultimo il buon successo da terzo ottenuto in Nevada a ridosso del secondo Gingrich, sono risultati diversi da quelli che normalmente ottengono “gli altri” candidati di primarie dove sono uno, al massimo due, i candidati che dettano legge sin quasi dal principio.

Del resto, la vittoria di Romney in Nevada è stata la più annunciata di tutte quelle sin qui ottenute da lui o da qualsiasi altro dei suoi rivali. L’aveva predetta persino lo stesso Gingrich, intervenendo su Fox News al programma On the Record, condotto da Greta Van Susteren, il 31 gennaio, dopo il voto della Florida. In Nevada, infatti, la presenza dei mormoni è assai rilevante e, quando Gingrich a Fox News ha detto che Romney è troppo a sinistra persino per la media del Nevada, aggiungendo che non è scontato che tutti i mormoni debbano automaticamente votare  per il loro correligionario Romney, ha fatto più che altro della (intelligente) propaganda.

Perché il Nevada va capito. Nacque da una scissione ed entrò a far parte degli Stati Uniti nel bel mezzo di una secessione, il parto che lo generò essendo intimamente legato alle vicende del Partito Repubblicano e la sua ragion d’essere precipuamente elettorale.

Quello che allora si chiamava Territorio del Nevada – un territorio non organizzato che manteneva un certo legame politico con gli USA – entrò nell’Unione nordamericana divenendo Stato il 31 ottobre 1864 in piena Guerra di Secessione (1861-1865), e questo soprattutto per volontà dei “nordisti” i quali miravano a ottenerne l’appoggio nelle elezioni che quello stesso anno avrebbero poi rieletto il Repubblicano (di allora) Abraham Lincoln (1809-1965). Come Territorio, il Nevada venne istituito il 2 marzo 1861, a Guerra di Secessione appena iniziata, staccandolo dall’allora Territorio dello Utah, a sua volta eretto con un atto del Congresso federale di Washington emanato il 9 settembre 1850, lo stesso giorno in cui la California diveniva il 31° Stato dell’Unione. Nel Territorio dello Utah (che esistette sino al 4 gennaio 1896, allorché divenne anch’esso Stato), la regione che separandosi diede origine al Territorio e poi allo Stato del Nevada era nota con il nome di Washoe, mutuato dall’omonima tribù di indiani che viveva lì e in California.

Uno dei motivi principali della separazione della regione del Washoe dal Territorio dello Utah fu la religione. Lo Utah era in grande maggioranza popolato da mormoni, che si concentravano però in alcune aree – massimamente nel bacino del Grande Lago Salato, a partire dal 1847 – mentre in altre erano “minoranza”. Una di queste era appunto la parte occidentale, il Washoe, futuro Nevada. Il Territorio e poi Stato del Nevada sorse dunque dalla secessione delle aree occidentali a maggioranza cristiana protestante dallo Utah mormone, ma proprio per questo in Nevada la presenza mormone resta di tutto rispetto.

Oggi la popolazione del Nevada si divide di fatto equamente tra un 27% circa di cattolici e un 26% circa di protestanti, divisi però, come sempre, in diverse congregazioni. I mormoni sono una corposa “minoranza”, pari sembra a circa l’11% (in Utah invece i mormoni sono circa il 58%, i protestanti circa il 14%, i cattolici circa il 10% e un enorme 16% della popolazione si dichiara non affiliato ad alcuna Chiesa o fede). È vero cioè il contrario di quanto affermato, certamente in ottica propagandistica, da Gingrich alla vigilia: l’elettorato Repubblicano mormone (una parte enorme di tutto l’elettorato Repubblicano del Nevada) che ha votato nei caucus del Nevada ha scelto compattamente Romney (quasi al 90%) e a esso si sono unite porzioni rilevanti dell’elettorato Repubblicano cattolico e protestante, in specie evangelical, cioè conservatore e spesso appartenente al popolo dei “Tea Party”

Il dato elettorale del Nevada più significativo è infatti proprio questo. Inquadriamolo.

Mentre il Nevada andava al voto, si aprivano contemporaneamente anche i caucus dello Stato del Maine, che si chiuderanno l’11 febbraio: è un unicum, i seggi voteranno uno dopo l’altro spalmati nel corso di una settimana al termine della quale si avranno i risultati. Il 7 febbraio si svolgeranno i caucus di Colorado e Minnesota; in quella stessa data anche il Missouri celebrerà consultazioni elettorali assolutamente però meramente consultive (negli Stati Uniti una ne pensano e cento ne inventano) giacché il Maine voterà davvero per affidare alla Convenzione di Stato del GOP il compito di scegliere i delegati lì in palio con il caucus indetto per il 17 marzo. Seguirà quindi lunga pausa, sino al 28 febbraio, allorché Arizona e Michigan voteranno con il sistema delle primarie, e quindi il 3 marzo toccherà ai caucus dello Stato di Washington, dove 40 sono i delegati da eleggere. Finalmente arriverà poi il 6 marzo, giorno del famoso, proverbiale “Super Tuesday” quando voteranno contemporaneamente 10 Stati (Alaska, Georgia, Idaho, Massachusetts, North Dakota, Ohio, Oklahoma, Tennessee, Vermont e Virginia) mettendo in palio complessivamente 407 delegati eleggibili con voto popolare (più altri 30 “superdelegati” ad appannaggio del GOP). 

Potrebbe essere quello il vero turning point. I candidati in corsa lo sanno meglio di chiunque altro. Ebbene, che un numero importante di cattolici e di protestanti evangelical, di Repubblicani conservatori e di aderenti ai “Tea Party”, cominci a mostrare apertamente di poter gradire un mormone alla Casa Bianca potrebbe essere la vera, decisiva differenza in un Paese che continua a stupire come nessun altro. Per esempio perché, come nessun altro, pone al centro del dibattito politico l’identità conservatrice. Ne parla il candidato Santorum, ne parla Al Cardenas chairman di quell’American Conservative Union che è un pezzo imprescindibile della storia del movimento conservatore statunitense, ne parla l’opinionista Ann Coulter ringraziando ripetutamente il cielo della scomparsa dell’ala liberal del partito, i cosiddetti “Rockefeller Republicans” (tra i quali la commentatrice annovera pure il senatore John McCain, candidato presidenziale del GOP sconfitto da Obama nel 2008). E il conservatorismo è una cosa che negli States continua a significa tenere sì sempre presente lobby, constituency, denari e potere, ma anzitutto i “princìpi non negoziabili”.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.