Romney vince Michigan e Arizona e ora la nomination è più vicina
29 Febbraio 2012
Mitt Romney ha strappato la vittoria a Rick Santorum nelle primarie Repubblicane svoltesi contemporaneamente martedì 28 febbraio in Arizona e in Michigan. L’ha “strappata” perché, in teoria, Arizona e Michigan sono Stati dove Santorum avrebbe potuto persino vincere: soprattutto il Michigan, come dimostra chiaramente il fatto che lì la differenza tra le percentuali elettorali ottenute rispettivamente da Romney e da Santorum è davvero poca.
In Arizona, infatti, Romney ha ottenuto il 47,27% dei suffragi espressi (pari a 216,805 voti), Santorum il 26,62% (122.088 voti), Newt Gingrich il 16,16% (74.110 voti) e Ron Paul l’8,45% (38.753 voti), con il resto dei voti sparpagliati fra candidati minori. In Michigan, invece, Romney ha vinto con il 41,1% (410.517 voti) tallonato da Santorum con il 37,9% (378.124 voti), ai quali seguono Paul con l’11,6% (115.956 voit) e Gingrich con il 6,5% (65,093 voti) e il resto sempre suddiviso in piccole parti fra diversi altri.
Romney ha battuto i concorrenti giocando la sua carta preferita, l’economia. Difficile peraltro dargli torto, torto che infatti di per sé non gli dà nessuno nell’elettorato Repubblicano, nemmeno chi ritiene che oltre o persino sopra l’economia vi siano altre questioni politicamente decisive. Ma lo stato di crisi fa novanta. Oggi negli Stati Uniti dire economia vuol dire anzitutto posti di lavoro. Che mancano. Il tasso di disoccupazione nazionale registrato nel gennaio 2012 è dell’8,30%.
Un po’ è sceso rispetto a vette recenti più elevate, ma per gli standard (e la mentalità) statunitensi già quella è una cifra da capogiro. E se in Arizona il tasso di disoccupazione è poco sotto la media nazionale, in Michigan è addirittura superiore, sopra i 9 punti percentuali. In Arizona il tema si carica, si lega e si mischia all’altro nervo scoperto “regionale”, quello dell’immigrazione dal Messico. In Michigan permane sempre il bubbone dell’industria automobilistica, con l’enorme plesso di Detroit in costanti ambasce e con il coté Democratico che cercherà di spremere elettoralmente al massimo le virtù dell’accordo Chrysler-Fiat.
All’indomani del voto, dunque, quel che risulta palese è anzitutto che la sfida parrebbe essersi davvero ridotta allo sconto tra Romney e Santorum. In secondo luogo, però, resta il fatto che nessuno dei concorrenti nella corsa Repubblicana sembra intenzionato a mollare il colpo nonostante le batoste. Gingrich e Paul paiono oggi davvero fuori dai giochi, e Santorum in costante affanno. Il Michigan ha certamente dato a Santorum non tutto ciò che uno Stato del Midwest può dare a un candidato come lui, ma ciò a maggior ragione significa che l’elettorato Repubblicano si è lasciato convincere dall’“eliggi-bilità” di Romney contro Obama, e questo sempre più per ragioni economiche.
La matematica ancora non garantisce il verdetto, ma oggi come oggi Romney ha comunque, rispetto a Santorum, il doppio dei delegati alla Convenzione nazionale Repubblicana che in agosto deciderà la nomination. In assoluto, si è ancora lontani da quei 1144 delegati che assicurano a un candidato in corsa la maggioranza alla Convenzione (Romney ne ha poco più del 10%), e comunque lo si sarà ancora dopo il “Super Tuesday” che da solo ne assegnerà complessivamente quasi 450, epperò il trend sembra chiaro. Santorum potrebbe fare ancora bene in alcuni Stati del Midwest, ma con tutta probabilità sarà un bene releativo.
Dunque? Dunque la cosa migliore che i candidati Repubblicani anti-Romney – Santorum, Paul Gingrich – possono fare adesso è non lasciare solo l’ex governatore del Massachusetts. Più gli stanno a fianco, più la sua campagna elettorale si sposta a destra; più gli fan sentire il fiato sul collo, più i toni della sua corsa alla nomination si fanno conservatori. Se non vorranno sprecare tutto quanto sin qui faticosamente racimolato i tre anti-Romney ancora in corsa nelle primarie dovranno investire gli ultimi denari che ancora hanno a disposizione e le energie che sono rimaste alle loro macchine elettorali per stringersi attorno a Romney.
Solo così condizioneranno in maniera determinate l’uomo che con tutta probabilità otterrà l’investitura Repubblicana per confrontarsi con Barack Obama. Perché questo a novembre bisognerà fare: sconfiggere l’avversario, e farlo bene. Affinché Romney ne sia lo strumento, Santorum, Gingrich e Paul dovranno mercanteggiare al meglio un voto di scambio trasparente e virtuoso. Obama ha saputo ripescare con maestria l’arcinemica Hillary Clinton; se diverrà l’uomo dei Repubblicani, Romney dovrà mostrare di sapere valorizzare un esercito che finora lo ha sfidato ma che domani potrebbe appoggiarlo in maniera strategica, e dovrà farlo ben prima della Convenzione nazionale di agosto. La vittorie non rotondissime ottenute da Romney negli Stati in cui sinora sono state celebrate le primarie non mentono.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.