Ru486, che c’entra la scelta col rispetto della legge e una buona informazione?

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Ru486, che c’entra la scelta col rispetto della legge e una buona informazione?

11 Aprile 2010

Abortire è un dramma. Ogni donna che lo ha fatto, o ha anche solo pensato di farlo, lo sa. È un gesto volontario e consapevole, certo, ma motivato al fondo della coscienza e del cuore da una forma di disperazione, talvolta soffusa altre volte lacerante e incancellabile. È un dramma esistenziale che non può ridursi ad un braccio di ferro tra laicisti e cattolici, leghisti e radicali, femministe pro-choice e pro-life. Perché, a differenza di quanto affermano i paladini dello stato di diritto alla Rodotà (Stefano o Maria Laura, poco cambia), qui non è affatto in discussione l’opportunità di scelta di una persona, che entro certi limiti è tutelata dalla 194, ma la tutela e l’integrità della vita umana, che non è solo quella di un bambino non voluto ma anche quella di una donna che non vuol essere madre.

E allora allontaniamoci dalla consuetudine tutta italiana di trasformare in scontro politico persino quel che accade nel misterioso utero femminile e soffermiamoci per un attimo a pensare che cosa significa per una donna abortire. Presentarsi una mattina in ospedale per farla finita con una gravidanza indesiderata. Incrociare gli sguardi spaventati e persi di donne che sono come te, se non fosse che a volte vengono dall’altra parte del mondo e che tutto possono permettersi tranne un bambino. Trovare lo smarrimento di mamme giovanissime, accompagnate a loro volta dalle madri o dai fidanzatini, che saltano un giorno di scuola per metter riparo ad un errore prima che sia troppo tardi. Aspettare di venir messe su un lettino per essere addormentate, tutte insieme nella stessa stanza, tutte unite dal medesimo provvisorio destino

Se quelle donne che non hanno il coraggio o la possibilità di portare avanti la propria gravidanza e che in questi giorni stanno assistendo ad un gioco di forza che parla di loro ma non con loro potessero scegliere di buttar giù due pillole e via, pensate davvero che non lo farebbero? Che non preferirebbero far calare sulla loro condizione una cortina di silenzio, far finire tutto nella maniera più indolore possibile, nel calore delle proprie mura domestiche o al lavoro, per non lasciare la benché minima traccia di quello che è accaduto? A questo deve aver pensato la giovane donna di Bari, involontaria protagonista di cosa significa abortire di Ru486, che ha deciso di prendere la prima pillola abortiva e scapparsene a casa. Del resto, se basta una semplice firma per aggirare l’applicazione di una buona legge come la 194, senza peraltro che nessuno dei famosi difensori dello stato di diritto levi grida di dissenso, cos’altro ci aspettiamo che facciano queste donne disperate?

Eppure c’è qualcosa che in questa storia ci stona. Ci sono le donne morte a causa della pillola abortiva in tutto il mondo. C’è la sofferenza fisica che produce l’aborto farmacologico e che nessuno racconta. Ci sono statistiche che parlano di aborto entro il quarto giorno solo nel 3-5 per cento dei casi mentre nel restante 80 per cento servono da 5 a 20 giorni. C’è il rischio, presente per almeno il 5-8% delle donne che con la Ru486 non si raggiunga il risultato sperato, e che si debba ricorrere in ogni caso all’aborto chirurgico. Ci sono le statistiche che dicono che nel mondo la percentuale di donne che ripeterebbe l’aborto con metodo farmacologico è minore (53%) di quella che, avendo abortito con metodo chirurgico, ripeterebbe l’azione con lo stesso metodo (77%). C’è il fondato pericolo di banalizzare il dramma dell’aborto al punto da farne una pratica a domicilio e fai-da-te.

Chissà se la giovane donna di Bari, con due figli voluti e uno di troppo, prima di firmare per tornarsene a casa è stata informata dal personale sanitario di cosa sarebbe potuto accadere nei giorni successivi l’ingerimento dei due farmaci? Se gli hanno detto di controllare la quantità del flusso emorragico, l’intensità dei dolori addominali, l’avvenuta espulsione dell’embrione prima che sia troppo tardi. Se le hanno parlato degli “effetti collaterali”, del rischio di setticemia, di shock cardiovascolari, della nausea, del vomito, se le hanno detto che più della metà delle donne ricorda di aver riconosciuto l’embrione abortito mentre controllava l’assorbente e tutto ciò di cui un consenso davvero informato dovrebbe parlare.

E allora qui non si tratta dell’opportunità di rifiutare una gravidanza ma piuttosto del diritto ad una scelta consapevole e del rispetto di una legge.