Rubygate, ammesso il conflitto tra poteri e la difesa punta “all’eccezione”
07 Luglio 2011
Il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato è “ammissibile”. Lo ha dichiarato ieri la Corte costituzionale nell’ambito del “caso Ruby” in merito al quale Montecitorio, con un provvedimento approvato il 5 aprile scorso, aveva presentato ricorso contro la Procura e il gip di Milano che hanno rispettivamente indagato e rinviato a giudizio immediato Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile.
Ma la decisione è solo una via libera preliminare e non vuol dire che il conflitto d’attribuzione c’è. Per saperlo bisognerà aspettare almeno il prossimo inverno, quando la Consulta deciderà se accogliere o no la richiesta del Parlamento di annullare gli atti d’indagine e il decreto di giudizio immediato per il presidente del Consiglio. Tuttavia i giudici hanno dichiarato la “sussistenza della materia del contendere”. In sostanza, ciò vuol dire che hanno intenzione di prendere in considerazione un’eventuale violazione commessa dai magistrati di Milano che, nonostante il parere contrario del Parlamento, hanno deciso di continuare sulla strada del procedimento a carico del premier escludendo la ministerialità del reato di concussione.
Nello specifico la questione ruota tutta intorno alla telefonata che, la notte del 26 aprile 2010, Berlusconi ha fatto alla questura. Secondo i magistrati di Milano, che ritengono di avere la competenza giuridica sul caso, il premier avrebbe chiamato a titolo personale per sollecitare la liberazione Karima el Mahroug. Per il Parlamento, al contrario, il Cavaliere si è rivolto alla questura per evitare un incidente diplomatico, in quanto convinto che Ruby fosse la nipote dell’ex presidente egiziano Mubarak. Se la Corte dovesse propendere per la prima ipotesi il processo non subirà variazioni. Nel secondo caso, invece, la questione dovrà essere esaminata dal Tribunale dei Ministri, ma solo dopo un altro passaggio parlamentare: l’autorizzazione a procedere votata dalla Camera a maggioranza assoluta (316 voti).
Il ricorso di Montecitorio era stato presentato lo scorso 17 maggio con una memoria scritta dal parlamentare del Pdl Roberto Nania, e firmata dal presidente della Camera Gianfranco Fini, con la quale Montecitorio chiedeva l’annullamento degli atti compiuti dalla magistratura milanese poiché "non spettava alla procura di Milano" avviare le indagini e neanche procedere alla richiesta di giudizio immediato "per concussione, omettendo di trasmettere gli atti al collegio per i reati ministeriali". In questo modo, si legge nella motivazione, si sarebbe precluso alla Camera l’esercizio delle “proprie attribuzioni costituzionali”.
Secondo alcune fonti del Palazzo della Consulta interpellate dall’Ansa, tenuto conto del precedente rappresentato dal conflitto sollevato dal Senato nel 2010 sul caso dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, l’ammissibilità del conflitto d’attribuzione era data per scontata. E probabilmente sarà proprio il verdetto su quel caso, già fissato per il prossimo 18 ottobre, che potrebbe anticipare le intenzioni della Corte sul Rubygate.
Ad ogni modo, secondo alcuni quotidiani, la dichiarazione di ammissibilità del conflitto giocherebbe a favore degli avvocati del premier che potrebbero chiedere la sospensione del processo in attesa del verdetto della Consulta. Un’eventualità però smentita dallo stesso Niccolò Ghedini che ha negato di voler avanzare tale richiesta, perché convinto che sarà accolta “l’eccezione”: ovvero una delle questioni sollevate davanti ai giudici milanesi che, se accolta – il verdetto sarà comunicato il 18 luglio, data della prossima udienza –, conferirebbe al Tribunale dei Ministri sia la competenza delle indagini che quella del giudizio sul reato di concussione attribuito al Capo del governo.
Insomma, su questo procedimento, che da sette mesi a questa parte sta causando continui effetti politici, la Giustizia naviga a vista: un fatto che dimostra ancora una volta quanto il ‘processo Ruby’, a prescindere dalle decisioni della Consulta, sia il simbolo di uno scontro aperto fra poteri dello Stato.