Russia e Italia si piacciono e le relazioni tra il Cav. e Putin lo dimostrano

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Russia e Italia si piacciono e le relazioni tra il Cav. e Putin lo dimostrano

Russia e Italia si piacciono e le relazioni tra il Cav. e Putin lo dimostrano

10 Maggio 2012

Il 7 maggio Vladimir Putin si è nuovamente insediato al Cremlino. In prima fila c’era Silvio Berlusconi, cosa che non ha mancato di suscitare qualche frecciata: “Mentre il Pidielle va a put…, Berlusconi va da Putin”, ha esclamato il comico Crozza.

Eppure meno male che Silvio c’era, altrimenti quel giorno, al Cremlino, l’Italia sarebbe stata assente, un po’ poco in considerazione delle talvolta tumultuose ma mai interrotte relazioni fra Roma e Mosca. Un rapporto di amore e odio, insomma, ma “l’amore trionfa sempre sull’odio e sull’invidia”, tanto per citare una frase del Silvio nazionale. A parte l’amicizia personale con Vladimir, fu proprio Silvio l’anfitrione dello storico accordo di Pratica di Mare su cui si basano le relazioni odierne fra la Russia e l’Alleanza atlantica.

Talvolta la reciprocità fra Italia e Russia è stata alquanto aleatoria, come nel caso delle invasioni (bisogna riconoscere che le truppe italiane hanno invaso l’Urss, mentre il contrario non si è mai verificato) ma i due paesi hanno sempre esercitato un’irresistibile forza di attrazione reciproca. Ricordate Palmiro Togliatti? Dove scelse di andare quando fuoriuscì dal Bel Paese?

In Unione sovietica, naturalmente. E ne prese anche la cittadinanza, esprimendo così la sua smisurata soddisfazione: “E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere dieci volte più del migliore italiano”. E “il migliore” fu chiamato, infatti.

All’indomani dell’8 settembre 1943 quale fu il primo paese che l’Italia badogliana si affrettò a riconoscere? L’Urss, ovviamente. Le parole dell’allora presidente del consiglio al capo dei bolscevichi, impresse su uno storico telegramma, meritano di essere ricordate: “Nel momento in cui i nostri due paesi hanno deciso di scambiare rappresentanti ufficiali, desidero particolarmente dichiarare a Voi, maresciallo Stalin, che tutta la nazione italiana è più che mai convinta dell’opportunità di riallacciare le relazioni italo-sovietiche, su quelle basi di collaborazione costruttiva e amichevole, che furono interrotte dal regime che noi oggi combattiamo insieme. So che interpreto il sentimento della nazione italiana inviando a Voi, maresciallo Stalin, e al grande popolo bolscevico, il mio riconoscente e sincero saluto”.

Tornando a Togliatti, negli anni Cinquanta era uomo molto ascoltato al Cremlino, basti pensare a quando allungò la vita all’ex leader riformista ungherese Imre Nagy. Il poveraccio, dopo la repressione della rivolta ungherese del 1956 (salutata dai capi comunisti nostrani – taluni ancora viv – al grido “arrivano i nostri” e “l’intervento dell’armata rossa sovietica a Budapest ha salvato la pace nel mondo”) fu catturato con l’inganno e deportato in Romania.

Dopo un processo farsa fu condannato a morte. Nell’imminenza della sua impiccagione prevista per i primi di maggio del 1958, Togliatti, il “migliore dei telefonisti”, chiamò preoccupato i suoi capi a Mosca. Per salvare Nagy? Macché, semplicemente per dire loro: “Mi raccomando, compagni, non impiccatelo subito, ma dopo le elezioni italiane del 25 maggio, altrimenti il Pci perderà un sacco di voti!”. I sovietici acconsentirono, e lo impiccarono il 16 giugno. Si sa: una telefonata allunga la vita.

Dopo la seconda guerra mondiale Mosca non si affrettò a riconsegnare all’Italia i prigionieri di guerra (gli ultimi furono rilasciati solo nel 1954) ma pretese la consegna della nave ammiraglia, la “Giulio Cesare”, che nella battaglia di Punta Stilo venne danneggiata solo lievemente. Acconsentimmo subito, ma la nave partì nel 1948 non da un porto italiano bensì da Valona in Albania, per evitare eventuali proteste della gente. La nave raggiunse Sebastopoli, fu ribattezzata “Novorossiysk” e diventò l’ammiraglia della flotta sovietica del Mar Nero. Ma non per molto.

Nel 33° anniversario della marcia su Roma (ma solo casualmente) la nave, in rada nel porto ucraino, saltò in aria affondando e causando il più grave disastro della storia della marina sovietica: 608 morti. Si vociferò di un’ardita impresa da parte di ex incursori della disciolta Decima Flottiglia MAS che vollero lavare l’onta servendosi di un sommergibile americano, ma questo non venne mai confermato né avrebbe potuto mai trovare conferma ufficiale. L’ultimo dei presunti partecipanti all’impresa, l’ammiraglio Gino Birindelli, si è portato il segreto nella tomba il 2 agosto 2008.

Dopo il motto “ti do una nave ma non potrai usarla”, venne il tempo del “ti boicotto ma neanche tanto”. Il giorno di Natale del 1979 l’Unione sovietica invase l’Afghanistan. L’anno successivo le Olimpiadi dovevano tenersi a Mosca e l’Occidente decise di boicottare i giochi per rappresaglia contro l’odiosa occupazione di un paese sovrano. L’Italia boicottò a modo suo, partecipando senza partecipare, all’italiana, insomma.

Il giorno della cerimonia inaugurale, mentre le rappresentative occidentali erano assenti, quella italiana c’era. Però senza atleti militari, cosa che danneggiò i medesimi. E anche senza bandiera: il colmo dell’ambiguità calabraghista italica fu raggiunto nello sfilare all’ombra della bandiera del Comitato Olimpico anziché con quella nazionale. Ci attirammo gli strali di tutti gli alleati, che ci bollarono come ambigui e inaffidabili, ma riuscimmo a strizzare l’occhiolino ai sovietici. Dopotutto, finanziavano massicciamente con una pioggia di rubli il secondo partito italiano.

Della guerra fredda non va dimenticata la vicenda degli euromissili. Quando fu chiaro che Mosca aveva puntato i missili SS20 contro tutte le capitali europee, la NATO decise di rispondere schierando i Pershing-2 e i Cruise per pareggiare il conto, a scopo di deterrenza. I missili da crociera erano appena stati inventati: erano gioielli della tecnologia bellica che consentivano di colpire con estrema precisione obiettivi a grande distanza dopo avere seguito una rotta predeterminata.

Avendo una gittata massima di duemilacinquecento chilometri, i missili Cruise dislocati ad Aviano o in qualsiasi altra base del Nordest avrebbero potuto polverizzare Mosca. Ma un ulteriore motto italico venne escogitato: “Ti punto addosso un missile ma non ci arriverà mai”. Infatti l’Italia scelse di ubicarli non in Friuli ma nell’aeroporto di Comiso, in Sicilia. Ora provate a misurare, su una carta geografica, la distanza fra Comiso e Mosca: sono 2.800 chilometri. Mosca era salva. E le relazioni fra Roma e Mosca anche. E dureranno ancora a lungo.