Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 10 e 11
07 Maggio 2020
Capitolo 10
Il disordine de’ banchi, quindici anni prima, forse o non vi sarebbe stato o sarebbe stato piú tollerabile, perché la nazione avea allora un erario sufficiente a riempire il vuoto che ne’ banchi si faceva, o almeno a mantenervi sempre tanto danaro quanto era necessario per la circolazione. È una veritá riconosciuta da tutti, che ne’ pubblici depositi può mancare una porzione del contante senza che perciò la carta perda il suo credito; ma conviene che la circolazione sia in piena attivitá e che, mentre una parte della nazione restituisce le sue carte, un’altra depositi nuovi effetti. Ora, in Napoli da alcuni anni era cessata del tutto l’introduzione delle nuove specie, poiché estinta era ogni industria nazionale, e quei rapporti di commercio che soli ci eran rimasti colle altre nazioni erano tutti passivi. I tremuoti del 1783 e piú de’ tremuoti, l’economia distruttiva della corte avean desolate le Calabrie; due delle piú fertili province eran divenute deserte. Il disseccamento delle paludi Pontine e la coltura che Pio sesto vi aveva introdotta ci avean tolto o almeno diminuito un ramo utilissimo di esportazione de’ nostri grani. Noi avevamo altre volte un commercio lucrosissimo colla Francia, e quello che sulla Francia guadagnavamo compensava ciò che perdevamo cogli inglesi, cogli olandesi e coi tedeschi. La rivoluzione di Francia, distruggendo le manifatture di Marsiglia e di Lione, fece decadere il nostro commercio d’olio e di sete. Conveniva dare maggiore attivitá alle nostre manifatture di seta ed istituir delle fabbriche di sapone: esse sarebbero divenute quasi privative per noi, ed avremmo ritratto almeno questo vantaggio dalla rivoluzione francese1. Ma quest’oggetto non importava ad Acton. Conveniva serbare un’esatta neutralitá, la quale, ne’ primi anni della rivoluzione francese, avrebbe dato un immenso smercio de’ nostri grani. Ma Acton e la regina credevano poter far morire i francesi di fame. Intanto i francesi destarono i ragusei ed i levantini, dai quali ebbero il grano, e non morirono di fame: noi perdemmo allora tutto il lucro che potevamo ragionevolmente sperare, ed oggi ci troviamo di aver acquistati in questo ramo di commercio de’ concorrenti, tanto piú pericolosi in quanto che abitano un suolo egualmente fertile e sono piú poveri di noi. Ci si permise il solo commercio cogl’inglesi, poiché il commercio di Olanda era anche nelle mani dell’Inghilterra, cioè ci si permise quel solo commercio che ci si avrebbe dovuto vietare: anzi, siccome l’opinione della corte era venduta agl’inglesi, cosí l’opinione della nazione lo fu egualmente; e non mai le brillanti bagatelle del Tamigi hanno avuta tanta voga sul Sebeto, non mai noi siamo stati di tanto debitori agl’inglesi, quanto nel tempo appunto in cui meno potevamo pagare. Questo disquilibrio di commercio ha tolto in otto o nove anni alla nazione napolitana quasi dieci milioni di suo danaro effettivo, oltre tanto, e forse anche piú, che avrebbe dovuto e che avrebbe potuto guadagnare, se il vero interesse della nazione si fosse preferito al capriccio di chi la governava.
A tutti questi mali erasi aggiunto quello di una guerra immaginata e condotta in modo che distruggeva il Regno, senza poterci far sperare giammai né la vittoria né la pace. Si manteneva da quattro anni un esercito di sessantamila uomini ozioso nelle frontiere, ed il suo mantenimento costava quanto quello di qualunque esercito attivo in campagna. Per conservar, come si dicea, la pace del Regno, la quale si dovea fondar solo sulla buona fede del re, si richiesero nuovi soccorsi al popolo; e si ottenero. Si richiese non solo l’argento delle chiese, ma anche quello de’ privati, dando loro in prezzo delle carte che non avevano alcun valore; e si ottenne2. S’impose una decima su tutti i fondi del Regno, la quale produceva quasi il quarto di tutti gli altri tributi che giá si pagavano. Ma tutte queste risorse, che non furono piccole, si dissiparono, si perdettero, passando per mani negligenti o infedeli.
Si spogliarono le campagne di cavalli, di muli, di bovi, che parte morirono per mancanza di cibo, parte si rivendettero da quegl’istessi che ne avean fatta la requisizione.
Si tolsero nella prima leva le migliori braccia all’agricoltura, allo Stato la piú utile gioventú, che, strappata dal seno delle loro famiglie, fu condotta a morire in San Germano, Sessa e Teano: l’aria pestilenziale di que’ luoghi e la mancanza di tutte le cose necessarie alla vita, in una sola estate, ne distrussero piú di trentamila. Una disfatta non ne avrebbe fatto perdere tanti.
Allora si vide quanto la nazione napolitana era ragionevole, amante della sua patria, ma nel tempo istesso nemica di oppressioni e d’ingiustizie. Erano due anni da che si era ordinata una leva di sedicimila uomini, ma questa leva, commessa ad agenti venali, non era stata eseguita: la nazione vi aveva opposti tanti ostacoli, che pochissime popolazioni appena aveano inviato il contingente delle loro reclute. Gli abitanti delle province del regno di Napoli non amavano di fare il soldato mercenario, servo de’ capricci di un generale tedesco, che non conosce altra ordinanza che il suo bastone. La corte vide il male; la nuova leva fu commessa alle municipalitá o sia alle stesse popolazioni, ed i nuovi coscritti furon dichiarati «volontari», da dover servire alla difesa della patria fino alla pace. Al nome di «patria», al nome di «volontari», tutti corsero, e si ebbe in pochissimi giorni quasi il doppio del numero ordinato colla leva. Ma questi stessi, un anno dopo, disgustati dai cattivi trattamenti della corte, e piú dalla sua mala fede, per la maggior parte disertarono. Essi erano volontari da servir fino alla pace; la pace si era conchiusa, ed essi chiesero il loro congedo. Un governo savio l’avrebbe volentieri accordato, sicuro di riaverli al nuovo bisogno; ma il governo di Napoli non conosceva il potere della buona fede e della giustizia: anziché esserne amato, credeva piú sicuro esser temuto dai suoi popoli, e ne fu odiato. Tanti disertori, per evitare il rigore delle persecuzioni, si dispersero per le campagne: il Regno fu pieno di ladri e le frontiere rimasero prive di soldati.
I cortigiani diedero torto ai soldati, perché volevano adular la corte3; gli esteri diedero torto ai soldati, perché volevano avvilir la nazione; e molti tra’ nostri, che pure hanno fama di pensatori, diedero torto ai soldati, perché non conoscevano la nazione ed adulavano gli esteri. Questi piccoli tratti caratterizzano le nazioni, gli uomini che le governano e quelli che le giudicano.
Capitolo 11
Tale era lo stato del Regno sul cadere dell’estate del 1798, quando la vittoria di Nelson ne’ mari di Alessandria, lo scarso numero della truppa francese in Italia, le promesse venali di qualche francese, la nuova alleanza colla Russia e, piú di tutto, gl’intrighi del gabinetto inglese, fecero credere al re di Napoli esser venuto il momento opportuno a ristabilire le cose d’Italia.
Da una parte, la repubblica romana, teatro delle prime operazioni militari, piú che di uno Stato, presentava l’apparenza di un deserto, i pochi uomini abitatori del quale, invece di opporsi all’invasore, dovean ricevere chiunque loro portasse del pane. Dall’altra, l’imperatore di Germania rivolgeva di nuovo pensieri di guerra: né egli né il Direttorio volevan piú la pace; e si osservava che, mentre i plenipotenziari delle due potenze stavano inutilmente in Rastadt, i francesi occupavano la Svizzera ed i russi marciavano verso il Reno.
Il re di Napoli, per completare il suo esercito, ordinò una leva di quarantamila uomini, la quale fu eseguita in tutto il Regno in un giorno solo. In tal modo sulle frontiere, al cader di ottobre, trovaronsi riuniti circa settantamila uomini.
Mancava a queste truppe un generale, e, credendosi che non si potesse trovare in Napoli, si chiese alla Germania. Mack giunse come un genio tutelare del Regno.
Il piano della guerra era che il re di Napoli avrebbe fatto avanzar le sue truppe nel tempo stesso che l’imperatore avrebbe aperta la campagna dalla sua parte. Il duca di Toscana ed il re di Sardegna doveano avere anch’essi parte nell’operazione, ed a tale oggetto facevano delle leve segrete ne’ loro Stati; e si erano inviati dalla corte di Napoli settemila uomini sotto il comando del general Naselli, il quale occupò Livorno ed a tempo opportuno doveva, insieme colle truppe toscane, marciar sopra Bologna e riunirsi alla grande armata. Si era creduto necessario, sotto apparenza di difesa, occupare militarmente la Toscana, perché quel governo era, tra tutti i governi italiani, il piú sinceramente alieno dai pensieri di guerra; e questo avea reso il ministero toscano tanto odioso al governo di Napoli, che poco mancò che non si vedessero dei corpi di truppa spedirsi da Napoli in Livorno a solo fine di obbligare il granduca a deporre Manfredini. In tal modo i francesi, circondati ed attaccati in tutti i punti, dovevano sloggiar dall’Italia.
Ma l’imperatore intanto non si movea, tra perché forse opportuna non era ancora la stagione, tra perché aspettava i russi che non erano giunti ancora. Il Consiglio di Vienna avea risoluto di non aprir la campagna prima del mese di aprile. Non si sa come, si ottennero lettere piú autorevoli delle risoluzioni del Consiglio, le quali permettevano all’esercito napolitano di muoversi prima; e queste lettere erano state chieste ed ottenute con tanta segretezza, che il ministero istesso di Vienna non le seppe se non nello stesso giorno nel quale seppe e la marcia delle truppe e la disfatta. Amarissimi rimproveri ne ebbe chi allora risedeva in Vienna per la corte di Napoli. II ministro Thugut diceva che questa corte avea tradita la causa di tutta l’Europa e che meritava di esser abbandonata al suo destino. La protezione dell’imperatore Paolo primo, presso il quale principal mediatrice fu la granduchessa Elena Paolowna, allora arciduchessa palatina, salvò la corte dagli effetti di questa minaccia. L’ambasciatore napolitano si giustificò, mostrando ordini in faccia ai quali quelli del Consiglio dovean tacere. Ma rimase e rimarrá sempre incerto e disputabile perché mai, contro gli stessi propri interessi, da Napoli si chiedevano e da Vienna si davano ordini segreti, contrari al piano pubblicamente risoluto, da tutti accettato, da tutti riconosciuto per piú vantaggioso. Intendevasi, con ciò, ingannar l’inimico o se stesso?
È probabile che la corte di Napoli ardesse di soverchia impazienza di discacciar i francesi dall’Italia. È probabile ancora che tanta impazienza non nascesse da solo odio, ma anche da desiderio di trarre da una vittoria, la quale credevasi sicura, un profitto, che forse l’Austria non avrebbe volentieri conceduto, ma, trovandolo giá preso, lo avrebbe tollerato. Siccome nelle leghe non si dá mai piú di quello che uno si prende, cosí de’ collegati ciascuno si affretta a prendere quanto piú può e quanto piú presto è possibile; la vicendevole gelosia genera la comune mala fede e, mentre ciascuno pensa a sé, si obbliano gl’interessi di tutti. Ma, in tale ipotesi, perché mai l’Austria acconsentí alla dimanda di Napoli? Non è neanche inverosimile che Mack, sempre fertile in progetti, credesse facile discacciar i francesi; e, sicuro de’ primi successi (e chi non l’avrebbe creduto, quando Mack non si conosceva ancora?), amava piú d’invitare l’imperatore a goderne i frutti che dividerne la gloria.
Sopra ogni altra congettura però è verosimile che la corte di Napoli operasse spesso senza l’intelligenza dell’imperatore di Germania, perché, mentre da una parte prestava il suo nome alla lega che si era stretta nel Nord e della quale era il centro principale in Vienna, dall’altra manteneva un suo ambasciatore in Parigi, il quale, quando la pace fu giá rotta, potette ottenere dal Direttorio ordini tali al generale in capo dell’armata d’Italia, che gli impedivano d’invadere il regno di Napoli e limitavano le sue operazioni militari a respingere solamente l’aggressione. Il corriere che portava tali ordini fu, non si sa bene per quale accidente, assassinato nel Piemonte. Ora, ordini di tale natura, quando anche s’ignorino le trattative precedenti, è certo che non si possono ottenere senza supporre o che il Direttorio ignorasse interamente i disegni ed i movimenti del gabinetto di Napoli, il che è incredibile, o che avesse risoluto d’abbandonar l’Italia, talché la corte di Napoli, piú che sugli aiuti degli alleati, fondasse le speranze de’ suoi vantaggi sull’abbandono del governo francese, e volesse perciò procurarseli da se sola, onde non esser costretta a dividerli cogli altri. È certo che la guerra con Napoli fu fatta contro gli ordini del Direttorio; che Championnet non ebbe altri che lo autorizzasse a farla se non il generale in capo Joubert, e che in faccia al Direttorio dovette scusarsi colla ragione di quella necessitá, che spesso spinge un generale oltre i limiti delle istruzioni superiori; e fu assoluto, perché facilmente si giustifica ogni audacia che abbia ottenuto prospero successo.
Ma tutte queste cose agitavansi nel segreto del gabinetto, né a tutti i ministri del re erano confidate. Miserabile condizione di tempi, ne’ quali la sorte de’ popoli dipende piú dall’intrigo che dal valor vero, e vedesi un governo, il quale poteva tutto ragionevolmente sperare dalle forze proprie e dall’opportunitá delle circostanze, avvilirsi a cercar la vittoria dai capricci e dalle promesse degli uomini, meno stabili della stessa fortuna! Se la corte di Napoli, consultando le proprie forze e la propria ragione, anziché taverneggiare la guerra, l’avesse guerreggiata, ne avrebbe ottenuti successi o piú felici o meno disastrosi. Difatti il maggior numero de’ consiglieri del re, sia che ignorassero le segrete ragioni sulle quali si fondavano tutte le speranze del buon successo, sia che non vi mettessero molta fede, rimasero fermi nel parere della pace. Ma Acton ebbe cura di allontanarli. Quando si decise la guerra, non intervennero molti degli antichi consiglieri. Il marchese De Marco, il generale Pignatelli, il marchese del Gallo eran per la pace.
Per la pace furono il maresciallo Parisi ed il general Colli, chiamati in Consiglio, sebbene non consiglieri. Ma la regina, Mack, Acton, Castelcicala formarono la pluralitá e strascinarono l’animo del re.
— Che vi pare di questa guerra giá risoluta? — domandò molti giorni dipoi la regina ad Ariola, che era ministro di guerra e che intanto non ne sapeva ancor nulla. Ariola, che avrebbe voluto tacere, spronato a parlare, le disse che da tal guerra vi era piú da temere che da sperare.
— Il re potrebbe — disse Ariola — sostener con vantaggio una guerra difensiva, ma tutto gli manca per l’offensiva. Egli non combatte ad armi eguali. I francesi, pochi di numero, son tutti soldati avvezzi alla guerra ed alla fatica; l’esercito nostro è per metá composto di reclute strappate appena da un mese dal seno delle loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirá che ad imbarazzare i buoni veterani che son tra loro, ed a rendere piú sensibile la mancanza in cui siamo di buoni officiali, il numero de’ quali non abbiam potuto raddoppiare in un momento, come abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si aspetta che queste truppe si disciplinino? Perché non si aspetta che l’imperatore si muova il primo? Tanta fretta si ha dunque di vincere, che non si ha cura neanche di render sicura la vittoria? Tanto certo è della vittoria Mack, che si avvia senza neanche pensare alla possibilitá di un rovescio? Si apre una guerra nelle frontiere, è necessario che uno de’ due Stati immediatamente sia invaso; ed intanto niuna cura egli si ha preso della difesa dell’interno del Regno, che tutto è aperto, ed, al primo rovescio che noi avremo, il nemico sará nel cuore de’ nostri Stati. A noi non sará molto facile, soli e senza il soccorso dell’imperatore, discacciar l’inimico dall’Italia, e, finché ciò non si ottenga, nulla si potrá dir fatto. Molte vittorie bisognano a noi: una sola basta all’inimico. Quanto piú l’inimico si avanzerá, tanto piú facile troverá la strada alla vittoria; ma quanto piú ci avanzeremo noi, tanto maggiori e piú numerosi ostacoli incontraremo: la sorte dell’inimico si decide in un momento; la nostra, sebbene prospera, avrá bisogno di molto tempo. Intanto Mack, quasi potesse terminar la guerra in pochi giorni, si avvia verso un paese desolato, ove è penuria di tutto, senza aver prima pensato a provvedersi, ed in una stagione in cui difficili sono i trasporti ed i generi non abbondanti… Egli si avvia a conquistare il territorio altrui e forse a perdere il proprio.
Quale fu l’effetto di questo discorso? Mack ed Acton se ne offesero, Acton minacciò Ariola, Ariola se ne dolse col re e, mentre il re gli dava ragione, Acton in sua presenza gli tolse il portafoglio. Pochi giorni dipoi, l’esperimento confermò la veracitá de’ suoi pronostici. Il re, fuggito da Roma, giunse a Caserta: si ricorda di Ariola e lo invoca come l’unico suo liberatore. Ariola parte pel campo onde concertare con Mack i mezzi di difendere il Regno da un’invasione. Trova lo stato maggiore in Terracina, ma Mack non vi era, né alcuno sapeva indicare ove mai si trovasse. Intanto vede ritornar l’esercito tutto disperso. Crede necessario tornare in Caserta e non perder tempo. Poche ore dopo la di lui partenza, Mack arriva. Scrive al re che il ministro della guerra era un vile, il quale avea abbandonato il suo posto. Ed Ariola è arrestato. Ne è improbabile che a questa disgrazia di Ariola abbia prestata la sua mano anche Acton, se è vero ciò che taluni dicono, che, accusato egli di aver mal diretti alcuni preparativi militari, abbia voluto fame creder colpevole Ariola ed abbia afferrata potentemente l’occasione di poter far sequestrare le di lui carte, onde non si venisse mai in chiaro del vero autore. Credeva egli con un delitto di cortigiano conservar la fama di generale?