
Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 4 e 5

03 Maggio 2020
Capitolo 4
Rimaneva il regno di Napoli; e forse, almen per quel tempo, i francesi non aveano né interesse né forza né volontá di attaccarlo. Ma la parentela coi sovrani di Francia, l’influenza preponderante del gabinetto inglese, il carattere della regina, tutto contribuiva a fomentare nella corte di Napoli l’odio che fin da principio, piú caldo che ogni altra corte di Europa, avea spiegato contro la rivoluzione francese. La regina, nel viaggio che avea fatto per la Germania e per l’Italia in occasione del matrimonio delle sue figlie, era stata la prima motrice di quella lega che poi si vide scoppiare contro la Francia. La forza costrinse la corte di Napoli a sottoscrivere una neutralitá, quando Latouche venne con una squadra in faccia alla stessa capitale.Forse allora temette piú di quel che dovea: se avesse prolungate per due altri giorni le trattative, la stagione ed i venti avrebbero fatta vendetta di una flotta che troppo imprudentemente si era avventurata entro un golfo pericoloso in una stagione pericolosissima.
La presa di Tolone fece rompere di nuovo la neutralitá. Al pari delle altre corti, quella di Napoli inviò delle truppe a sostenere una sciagurata impresa piú mercantile che guerriera, la quale, nel modo in cui fu immaginata e diretta, potea esser utile solo agl’inglesi. Nella primavera seguente inviò due brigate di cavalleria nella Cisalpina in soccorso dell’imperatore: esse si condussero molto bene. Ma le vittorie di Bonaparte in Italia fecero ricadere la corte ne’ suoi timori, e si affrettò a conchiudere una pace nel tempo appunto in cui l’imperatore avea maggior bisogno de’ suoi aiuti; nel tempo in cui, non presa ancora Mantova, non distrutte ancora tutte le forze imperiali in Italia, poteva, facendo avanzar le sue truppe, produrre un potente e forse pericoloso diversivo. Il governo francese ad una corte che non sapeva far la guerra seppe vendere quella pace, che esso avrebbe dovuto e che forse era pronto a comprare.
Perché si ebbe tanta paura della flotta di Latouche? Perché si credeva che in Napoli vi fossero cinquantamila pronti a prender l’armi in di lui favore. Non vi era nessuno, nessuno… Qual fu nella trattativa di questa pace il grande oggetto del quale si occupò la corte di Napoli? La liberazione di circa duecento scolaretti, che teneva arrestati nelle sue fortezze. Che non si fece, che non si pagò per far sí che il Direttorio non insistesse, come allora era di moda, per la liberazione de’ «rei di opinione»? La regina non approvava quella pace, e forse avea ragione; ma credette aver ottenuto molto, avendo ottenuto il diritto di poter incrudelire inutilmente contro pochi giovinetti che conveniva disprezzare… Non si perdano mai di vista questi fatti. La corte Napoli non sapeva né che temere né che sperare: come si poteva pretendere che agisse saviamente?
La corte di Napoli era la corte delle irresoluzioni, della viltá ed, in conseguenza, delle perfidie. La regina ed il re eran concordi solo nell’odiare i francesi; ma l’odio del re era indolente, quello della regina attivissimo: il primo si sarebbe contentato di tenerli lontani, la seconda volea vederli distrutti. Ne’ momenti di pericolo, il re ascoltava i suoi timori e, piú de’ timori, la sua indolenza; al primo favore di fortuna, al primo raggio di nuove e liete speranze, per cagione della stessa indolenza, abbandonava di nuovo gli affari alla regina.
Acton fomentava nel re un’indolenza che accresceva l’imperio suo e della regina; e questa, per desiderio di comandare, non si avvedeva che Acton turbava tutte le cose e spingeva ad inevitabile rovina il re, il Regno e lei stessa. La regina era ambiziosa; ma l’ambizione è un vizio o una virtú, secondo le vie che sceglie, secondo il bene o il male che produce. Ella venne la prima volta da Germania col disegno d’invadere il trono, né si ristette finchè, per mezzo degl’intrighi e dell’ascendente che una colta educazione le dava sull’animo del marito, non giunse a cangiar tutt’i rapporti interni ed esterni dello Stato.
Il marchese Tanucci previde le funeste conseguenze del genio novatore della giovine regina, e volle opporvisi fin da quel momento in cui pretese di aver entrata e voto nel Consiglio di Stato. Era questa una novitá inaudita nel regno di Napoli, e molto piú nella famiglia di Borbone; ma la regina vinse e giurò vendicarsi di Tanucci: né la sua etá, né il suo merito, né li suoi lunghi e fedeli servizi poterono salvar questo vecchio amico di Carlo terzo ed aio, per cosí dire, di suo figlio dalla umiliazione e dalla disgrazia.
Sotto un re, debole inimico ed infedele amico, tutti compresero non esservi da temere, non da sperare, se non dalla regina; e tutti furono a lei venduti. Ella creò anche al di fuori nuovi sostegni all’impero.
Tutti gl’interessi politici univano il regno di Napoli a quello di Francia e di Spagna, e questi legami potevano formar la felicitá della nazione coi vantaggi del commercio e della pace. Ma gl’interessi della nazione poteano bene essere quelli del re, non mai però quelli della regina: ella volea nuovi rapporti politici, che la sostenessero, se bisognasse, contro il re e, se fosse possibile, anche contro la nazione. Noi diventammo ligi dell’Austria, potenza lontana, dalla quale la nazione nostra nulla potea sperare e tutto dovea temere; potenza, la quale, involta in continue guerre, ci strascinava ogni momento a prender parte negl’interessi altrui, senza poter mai sperare di veder difesi li nostri. La preponderanza che l’Austria andava acquistando sulle nostre coste offese la Spagna; ma la regina, lungi dal temere il suo sdegno, lo fomentò, lo spinse agli estremi, onde togliere al re ogni via di ravvedimento.
I ministri del re doveano esser i favoriti della regina; ma questa sacrificava sempre i suoi favoriti ai disegni suoi. L’ultimo è stato il piú fortunato di tutti, non perché avesse piú merito, ma perché avea piú audacia degli altri, li quali non combattevano con lui ad armi eguali, perché non si permettevano tutto ciò ch’egli ardiva fare. Conservavano ancora costoro qualche vecchio sentimento di giustizia, di amicizia, di pubblico bene: come contrastare con uno che tutto sacrificava alla distruzione de’ suoi nemici ed al favore della sua sovrana?1.
Giovanni Acton venne dalla Toscana, cioè da uno Stato che non avea marina, a crearne una in Napoli. Avea due titoli, oltre un terzo che gli attribuisce la fama, a meritare il favore della regina: era, tra’ ministri del re, il solo straniero e seppe prima degli altri comprendere che in Napoli la regina era tutto ed il re era un nulla. Giunse nel tempo in cui ardevano piú che mai i disgusti colla corte di Spagna. Sambuca, che allora era primo ministro, prese il partito spagnuolo: fu male accorto e vile; perdette la grazia della regina e poco dipoi, come era inevitabile, anche quella del re. Si vide per poco sua successore Caracciolo; ma costui, rotto dagli anni e per natura portato all’indolenza, in una corte ove non si voleva il bene né si soffriva il vero, non fu che l’ombra di un gran nome e servì, senza saperlo o almeno senza curarlo, a far risplendere Acton, che la regina voleva esaltare, ma che ancora non poteva vincere la riputazione de’ piú vecchi. La morte di Caracciolo diede luogo finalmente ai suoi disegni: Acton fu posto alla testa degli affari, il vecchio De Marco confinato ai minuti dettagli di casa reale, tutti gli altri ministri non furono che creature di Acton. La sola parte d’ingegno, che Acton veramente possedeva, era quella di conoscer gli uomini. Non vi era alcuno che meglio di lui sapesse definire il carattere morale de’ suoi favoriti. Riputava Castelcicala vile e crudele nella sua viltá; Vanni entusiasta, ambizioso e crudele per furore quanto lo era Castelcicala per riflessione; Simonetti e Corradini ambedue uomini dabbene, ma il primo indolente, il secondo pedante, ed incapaci ambedue di opporsi a lui. Si servì di Castelcicala fin da che era ministro in Londra.
Capitolo 5
Acton e la regina quasi congiurarono insieme per perdere il Regno. La regina spiegò il piú alto disprezzo per tutto ciò ch’era nazionale. Si voleva un genio? Dovea darcisi dall’Arno. Si voleva un uomo dabbene? Dovea venirci dall’Istro. Ci vedemmo inondati da una folla di stranieri, i quali occuparono tutte le cariche, assorbirono tutte le rendite senz’avere verun talento e verun costume, insultarono coloro ai quali rapivano la sussistenza. Il merito nazionale fu obbliato, fu depresso e poté credersi felice quando non fu perseguitato.
Quel nobile sentimento di orgoglio, che solo ispira le grandi azioni, facendocene credere capaci; quel sentimento, che solo ispira lo spirito pubblico e l’amor della patria; quel sentimento, che in altri tempi ci fece esser grandi e che oggi fa grandi tante altre nazioni di Europa, delle quali fummo un tempo e maestri e signori, era interamente estinto presso di noi. Noi diventammo a vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo piú nulla. Tante volte e si altamente per venti anni Si era ripetuto che noi non valevamo nulla, che quasi si era giunto a farcelo credere.
La nazione napoletana sviluppò prima una frivola mania per le mode degli esteri. Questo produceva un male al nostro commercio ed alle nostre manifatture: in Napoli un sartore non sapeva cucire un abito, se il disegno non fosse venuto da Londra o da Parigi. Dall’imitazione delle vesti si passò a quella del costume e delle maniere, indi all’imitazione delle lingue: si apprendeva il francese e l’inglese, mentre era piú vergognoso il non sapere l’italiano. L’imitazione delle lingue portò seco finalmente quella delle opinioni. La mania per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue. La regina fu la prima ad aprir la porta a quelle novitá, che ella stessa poi con tanto furore ha perseguitate. Una nazione, che troppo ammira le cose straniere, alle cagioni di rivoluzione che porta seco il corso politico di ogni popolo aggiunge anche quelle degli altri popoli. Quanti tra noi erano democratici solo perché lo erano i francesi? Sopra cento teste voi dovete contare, in ogni nazione, cinquanta donne e quarantotto uomini piú frivoli delle donne: essi non ragionano in altro modo che in questo: — In… si pettina meglio, si veste meglio, si cucina meglio, si parla meglio: la prova n’è che noi ci pettiniamo, mangiamo, ci vestiamo com’essi fanno. Come è possibile che quella nazione non pensi e non operi meglio di noi?