Salvate il soldato Ryan
08 Luglio 2011
A Washington si è svolto l’incontro “cruciale” tra il presidente Barack Hussein Obama e i leader del Congresso. A tema, la spinosissima questione del bilancio. Che non si può più procrastinare, anzitutto perché il Paese rischia di andare a catafascio e in secondo luogo perché la campagna elettorale per il 2012 prima o poi entrerà nel vivo. La Casa Bianca vuole misure drastiche, “dolorose” tanto però quanto necessario. Bella, anzi ottima scoperta. L’opposizione Repubblicana lo sostiene non da oggi, salvo venire regolarmente demonizzata, ed è dal day after del discorso sullo Stato dell’Unione che il “soldato Ryan”, il deputato del Wisconsin Paul D. Ryan jr., titolare della Commissione bilancio della Camera, non perde occasione per predicare e spingere quell’aggressiva cura dimagrante che sola può salvare gli Stati Uniti.
Obama ha però sempre fatto orecchie da mercante, retoricamente mostrando di concedere (proprio a partire dal discorso sullo Stato dell’Unione) qualcosa all’opposizione, ma di fatto rimandando sempre a dopo (la tecnica consumata di certa politica che, spostando in là i problemi, cerca di guadagnare qualche ora d’aria in più). Adesso sembra però sia giunta davvero l’ora x (“sembra” perché bisognerà vedere cosa davvero, al di là delle parole roboanti, la Casa Bianca farà sul serio), e questo proprio perché il parterre Repubblicano che si sta radunando in vista delle primarie che selezioneranno il front-runner che contenderà la poltrona presidenziale a Obama fra circa 15 mesi sta mostrando i denti. La vorticosa e continua ascesa di Michele Bachmann, per esempio, al di là delle caricature “di rito” a cui cerca di abituarci la supponenza liberal, sta segnando, anzi ha già segnato uno score netto a vantaggio della rivolta oramai inarrestabile con cui i tartassati, le “partite iva”, la “società civile” e il “popolo delle libertà” sono già scesi in campo. Finirà come finirà, ma che la questione della riduzione della pressione fiscale e della spesa pubblica (inscindibilmente legate) sia il tema dominante (con tutto l’enorme, prezioso indotto politico-culturale che ne fluisce) è cosa innegabile. I Repubblicani del compromesso o addirittura lo stesso Obama potrebbe insomma pur finire per spuntarla sui “Tea Party”, ma è indubitabile che ciò accadrà semmai in maniera per i Repubblicani del compromesso o addirittura per lo stesso Obama non indolore. Per battere "l’opzione Bachmann" o ciò che questa rappresenta, sarà infatti inevitabile che gli avversari, fuori e dentro il Partito Repubblicano, mettano mano a fisco e conti pubblici. Altrimenti perderanno.
Ecco, le “lacrime e sangue” (annunciate, poi vedremo) di Obama potrebbero essere il primo passo di questa strategia. Se così fosse, sarebbe un punto da assegnare certamente alla battaglia politica dei “Tea Party”. Se così non fosse, sarebbe l’ennesima bugia dei Democratici liberal e dei loro di fatto alleati Repubblicani del compromesso. Epperò occorre anche scendere dalle “guerre stellari” delle macrostrategie alle volgarità delle trattive. Pare infatti certo che i Repubblicani abbiano sottoscritto un piano teso ad aumentare le entrate dello Stato federale, e questo da ottenersi concretamente – dice Jon Kyl, numero due dei Repubblicani al Senato – in due modi possibili: vendita di proprietà statali e aumento dei costi dei servizi statali ai cittadini. Con il leader della maggioranza Repubblicana alla Camera, Eric Cantor, che mercoledì ha gettato sul piatto anche la possibilità che i Repubblicani possano accettare un accordo a metà del guado basato sul congelamento di alcune riduzioni fiscali. In questo modo, calcola Kyle, la cifra dei nuovi introiti statali a cui i Repubblicani darebbero via libera si aggirerebbe tra i 150 e i 200 miliardi di dollari. Bene, penserà qualcuno: se c’è un buco nello Stato, un maggior afflusso di denaro non può che essere un sollievo. Sbagliato: la questione vera non è infatti dannarsi l’anima per reperire nuovi fondi che riempiano vecchi buchi, ma impedire allo Stato di trovarsi nella condizione di spendere e quindi di reperire soldi. Per esempio togliendo finalmente a esso competenza su un numero sempre crescente di ambiti della vita sociale, di modo che il monopolio privato dello Stato mangiatutto (una struttura sempre più aliena rispetto ai contribuenti) ceda il passo alla diffusa proprietà pubblica detenuta dai cittadini.
Ora, quella prospettata dal compromesso di Kyle è l’arte del governo, ma tradotto in lingua “Tea Party” si dice tradimento. Parole grosse, ovvio, all’udire le quali il jet-set bipartisan di Washington storce il naso. Ma appena quelle narici riprenderanno la propria fisionomia normale occorrerà che gli abitué della politica middle-of-the-road del Distretto di Columbia pensino a come rispondere alle sfide take-no-prisoner lanciate da “stranieri” quali la Bachmann”, o chi per lei, e soprattutto ciò che lei o chi per lei rappresenta. Obama punta al “grande accordo” che consenta risparmiare 4 trilioni di dollari. Super-Obama deve però spiegare ancora e sempre come fare, soprattutto se pensa di evitare di ridurre la macchina burocratica degli apparati federali restituendo governo agli Stati sovrani dell’Unione e alle loro genti, così come di tagliare un numero enorme di misure di welfare che servono sempre e solo a ingrassare i bureau e a svilire la dignità dei cittadini statunitensi non concedendo in cambio mai nemmeno un’oncia o un’ora di sollievo dai mali del mondo. Perché aumentare il costo di servizi che nessuno mai richiede ma deve sempre pagare è una campana che suona a morto, che innesca quelle a stormo.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.