Sanremo sarà pure nazionalpopolare ma a noi (ci) piace così

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Sanremo sarà pure nazionalpopolare ma a noi (ci) piace così

17 Febbraio 2011

Sanremo 61 anni dopo, rieccoci. Checché se ne dica, Da Nilla Pizzi a Valerio Scanu, a parte la presenza sempre meno ingombrante dei fiori, nulla è cambiato. Il Festival rimane il programma televisivo per eccellenza. Non c’è talent o reality show che tenga, nessuno ha la stessa ricaduta mediatica e sociale della kermesse canora che da decenni ci tiene, foss’anche per mezz’ora, incollati agli schermi.

La domanda che ci si pone, dati d’ascolto alla mano, è sempre la stessa: perché? La risposta, senza troppi giri di parole, è una: quello a cui si assiste per cinque giorni all’anno, intorno alla metà/fine del mese di febbraio, è il trionfo del “nazionalpopolare” fatto palcoscenico e lustrini.

Basta sintonizzarsi alle 21 su RaiUno, attendere la fine della sigla Rai Eurovisione (che fa tanto glorificazione del bel canto all’italiana nel mondo), per ritrovare la ricetta di quell’esaltazione. Partiamo dal cast: metti insieme due bellone monosillabiche – le cosce lunghe Rodriguez e Canalis –, che hanno infuocato i giornali di gossip estivi per le loro storie d’amore tormentate o alla pretty woman, strizzate in corpetti Fendi o Valentino. Aggiungici una vecchia gloria della musica leggera – il ‘belli capelli’ (tinti) Morandi –, un creatore di sogni collettivi, un po’ rinco e antidiluviano (“inglesina tutto pepe” riferita all’ospite internazionale Elisa Dolittle non lo si sentiva dire dal 1963) ma che tutto sommato non è ancora tempo di riporre in cantina perché è una “nostra pietra miliare”. Rosolare il tutto con due “iene” al veleno – i politically incorrect Luca e Paolo –, incarnazione della parodia della controcultura, e il piatto è servito.

Ma il Festivalone sarebbe abbastanza nazionalpopolare senza  una massiccia dose di realpolitik (attenzione, rigorosamente bipartisan)? Con i directors Gianmarco Mazzi e Mauro Masi, conclamati ‘fedelissimi’ dei propri editori, che ingaggiano l’eterno ragazzo (comunista) di Monghidoro per cui “Cristo era di sinistra”.

Con Luca e Paolo che danno un colpo al cerchio, “sputtanando” con soavi ritornelli Berlusconi e Fini, e uno all’ “intoccabile” botte: il “non si sa se andremo ancora in onda” Michele Santoro e “quello che arriva lui e risolve tutto il super pelatone” Roberto Saviano. Di destra o di sinistra, ce n’è per tutti, tanto va a finire a tarallucci vino e canzonette.

Non mancano, poi, tra le solite inflazionatissime parole “sole”, “cuore”,  “mare”, “amore” anche quelle del cantautore engagé nonché, nel caso specifico d’o’ professore Vecchioni, che dice basta allo status quo al grido di “Stanno uccidendoci il pensiero!” o di un Van De Sfroos che sembra riproporre una marcetta da concerto del 1° maggio alla Modena City Ramblers – chissà se avranno risintonizzato in tempo i decoder dei comaschi, dato che possono capirlo solo loro. E mentre c’è chi ‘minaccia’, di piazzarsi fuori dall’Ariston a cantare Bella ciao, c’è anche chi, come lo stralunato e patriottico Tricarico porta dentro l’Ariston un elogio al tricolore e alle battaglie del nostro Risorgimento.

Un mix da capogiro che però rimanda all’unica parola simbolo di questa edizione: l’“unità”, pronunciata 9 volte su 10 in un’ora, a pugni e denti stretti, dal Gianni nazionale che non manca di regalare perle da perfetto gaffeur (“Quest’anno si festeggiano i 150 anni della Repubblica italiana”). In un contesto politico (interno ed estero) mai così confuso e travagliato, il Festival non poteva non risolvere il tutto con la solita pillola: il canta che ti passa. E così, complice anche il 150esimo anniversario dell’Unità, quella vera, d’Italia ecco che Sanremo mette in campo un Benigni che si produrrà nel suo personale racconto dell’Inno di Mameli, tra un turbinio di fuochi d’artificio e un lancio di Frecce Tricolori. Della serie che ce frega, siamo pur sempre italiani! Lo dice pure Andy Garcia: “Sarò per sempre grato e onorato di essere considerato italiano” (frase standard dall’ospite internazionale di turno che calca il palco dell’Ariston, ma che ci piace tanto).

Il futile, il pettegolezzo, la critica radical chic, la politica fatta spettacolo, il motivetto impegnato, i cantanti classe ’43 incartapecoriti, le ammirate quanto detestate vallette, il televoto, i cachet vertiginosi: tutto questo è il nazionalpolarismo dell’Ariston. Insomma, in Festival mediocritas. Ma a noi piace così, perché Sanremo è Sanremo!