Santorum doma il Kansas e la corsa nel Gop è sempre più ‘lacrime e sangue’

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Santorum doma il Kansas e la corsa nel Gop è sempre più ‘lacrime e sangue’

12 Marzo 2012

Che la vittoria ottenuta sabato 10 Marzo in Kansas dall’ex-senatore federale per la Pennyslvania sia di grande importanza è innegabile. Testimonia infatti che quelle in corso negli Stati Uniti sono elezioni primarie vere, e quest’anno come non mai: sono combattute, non escludono colpi e non fanno prigionieri. Niente moine di facciata, risultati scontati, pantomime inutili. Gli States il loro candidato Repubblicano se lo stanno costruendo con sangue, sudore e lacrime.

In questa tornata, l’ex governatore del Massachusetts si è aggiudicato i caucus svolti nelle Isole Vergini Americane, a Guam e nelle Isole Marianne Settentrionali, importanti, mentre il Wyoming ha concluso i propri “caucus lunghi” consegnando il successo già da lui accumulato in Febbraio alle Convenzione di Stato che penserà ad ufficializzarlo, assegnando finalmente i delegati messi in palio a quelle latitudini.

Ora, il Kansas ha restituito a Santorum un po’ di ciò che Stati come l’Alaska, l’Idaho e il Wyoming avrebbe potuti dargli e che invece gli hanno negato. Perché l’ennesima conferma che viene a ogni puntata di questa lunga corsa alla nomination è che Santorum fa bene negli Stati della “provincia” mentre Romney conquista i quartieri più “borghesi” degli Stati Uniti. Oltre ad avere oramai inesorabilmente dalla propria l’establishment del partito: questo lo testimoniano in modo lampante i cosiddetti “superdelegati”, quelli ad appannaggio diretto del GOP che li assegna al proprio preferito senza consultazione popolare, i quali sono praticamente tutti per Romney.

Così, il testa a testa tra Santorum e Romney prende pure il sapore non tanto dello scontro fra il topo di campagna e quello di città – riduzionismo che piacerebbe poter brandire ai liberal -, ma quello del venire al nodo di una questione antica e talvolta dal gusto (o dal collegamento) metapolitico e prepolitico: qual è l’anima vera del GOP, adesso che di strada i Repubblicani ne hanno fatta tanta e particolare, oggi che l’ala interna di sinistra praticamente non esiste quasi più, adesso che i Democratici sono irrimediabilmente schiacciati completamente a sinistra e quindi gli States invocano un partito autenticamente di destra.Vada come vada quest’anno elettorale, il tema vero delle primarie è e resta questo.

La nuova vittoria di Santorum sbianca tutti coloro che alla vigilia non avrebbero scommesso un cent sul fatto che l’ex senatore sarebbe giunto sin qui con risultati così. Una cosa simile, del resto, si è vista assai di rado. Romney certamente è in testa, ma che il suo secondo lo talloni in questo modo non si ricorda a memoria di uomo. Aggiungiamoci poi che non solo il secondo in classifica fa meglio di chiunque altro abbia fatto prima alle spalle del front-runner, ma che anche i “guastatori” dietro Santorum, cioè Newt Gingrich e Ron Paul, ottengono risultati che mai un terzo e un quarto uomo delle primarie hanno totalizzato e totalizzato in questo modo (e Paul, alla sua terza corsa per la nonination, sta comunque avendo un successo personale incredibile), e otteniamo una gara davvero senza precedenti.

Oramai si potrebbe persino cominciare a pensare seriamente che sarà così fino alla fine, che alla fine il primo la spunterà di misura, con gli altri a dividersi una fetta enorme di quel sostegno politico-elettorale che gli avranno sottratto. Un candidato finale debole, dunque, incapace per motivi evidenti di sostenere l’urto di Barack Obama? Forse no. Già in passato il GOP è arrivato alla sfida presidenziale con candidati finali indeboliti da primarie litigate e dalla mancanza positiva di porzioni importanti di elettorato.

Le sfide così sono sempre andate male per il GOP: si vedano i casi di George H.W. Bush padre nel 1992 contro Bill Clinton, di Robert Dole nel 1996 sempre contro Clinton, di George W. Bush figlio nel 2000 che a momenti veniva travolto da Al Gore e di John McCain nel 2008 contro Barack Obama (che solo grazie a Sarah Palin perse, in termini assoluti di voti popolari, molto meno di quel che avrebbe invece potuto perdere). Ma la grande differenza tra allora e oggi è che nel 1992, nel 1996, nel 2000 e nel 2008 le debolezze dei candidati erano causate dall’assenza della Destra (nel 2008 la Palin fece quel che poté, e McCain tutto il resto) mentre nel 2012 le sono dalla sua presenza.

Il mondo conservatore non ha mai avuto paura di negare il proprio appoggio al GOP se in pista vi erano candidati indigeribili, pur sapendo così di consegnare il Paese alle Sinistre. Per i conservatori, infatti, Bush padre – che nel 1992 li aveva traditi sull’aumento delle tasse -, Dole – che nel 1996 correva da candidato dell’establishment e non del “movimento” -, Bush figlio – che nel 2000 era percepito come troppo “figlio d’arte” – e McCain – che nel 2008 non aveva nulla da invidiare al predecessore già bocciato Dole – erano tutti candidati “stranieri”, e la loro assenza segnò la sconfitta.

Ma oggi, se Romney giungerà debole alla Convenzione nazionale del GOP, sarà perché il “movimento” ha saputo affiancargli, non sottrargli, voti e uomini indispensabili. I conservatori, infatti, se non altro moltissimi di loro, sono tipi anche capaci di fare quadrato su un candidato non proprio, rafforzandolo dall’esterno, se ce n’è bisogno, soprattutto se hanno avuto la possibilità di fare andare costui a rimorchio loro e non viceversa. In passato hanno consegnato alla sconfitta totale candidati non propri perché il prezzo da pagare era l’invisibilità.

Oggi che invece la loro visibilità è specchiata, e per alcuni preoccupante, potrebbero scegliere di non lasciare una volta in più il Paese alla Sinistra, bensì di offrire un focoso destriero di destra a uno sfidante che sennò monterebbe un ronzino. Certi cavalli costano, ma denari a disposizione Romney li ha: la campagna acquisti per la vicepresidenza e per la squadra di un possibile futuro governo Repubblicano sono luoghi dove spenderli bene. È questo che oggi, a primarie molto speciali assai inoltrate, dice il Kansas con lingua non biforcuta. Martedì 10 marzo si vota su altre isole e quindi in Alabama e in Mississippi, dove i sondaggi raccontano di una lotta serratissima per la vittoria. Tra Santorum e Gingrich. Romney ci pensi bene.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.