Santorum getta la spugna nel momento migliore, pensando (forse) al 2016

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Santorum getta la spugna nel momento migliore, pensando (forse) al 2016

12 Aprile 2012

La corsa di Rick Santorum alla nomination presidenziale del Partito Repubblicano si ferma qui. L’annuncio ufficiale è giunto martedì 10 Aprile, nel mezzo della lunga “pausa” che le primarie stanno osservando dal 3 e fino al 24 di questo mese.

Prima o poi doveva accadere. Molti commentatori si sono anzi chiesti come mai non sia accaduto prima. E la perseveranza con cui fino a oggi Santorum ha promesso ai propri elettori di tenere duro sino alla fine non è stata una bugia: è stato l’orgoglio necessario a mostrare a tutti che la sua candidatura non era affatto solo di bandiera. Solo che adesso le difficoltà da sormontare sono per lui maggiori delle possibilità di successo. Del resto, una volta divenuto inevitabile il ritiro, mai come ora il momento è propizio per ritirarsi. Vediamo perché.

Anzitutto, il ritiro di Santorum non era inevitabile: lo è diventato. Le sue importantissime vittorie sono state tali nel momento in cui egli le ha conseguite e lo sono state anche dopo, man mano che le consultazioni elettorali sono proseguite, Stato dopo Stato. Ma, nel frattempo, sono venute, e quindi proseguite, anche le vittorie di Mitt Romney, l’avversario da battere. E pure le sue sono state importanti tanto nel momento in cui sono state conseguite, quanto dopo. Con la differenza che le vittorie più significative di Romney sono venute in Stati che votano applicando una legge elettorale di tipo maggioritario in cui chi vince si aggiudica tutti i delegati alla Convenzione nazionale del partito (in Agosto a Tampa, Fl.) che detti Stati mettono in palio, mentre quelle di Santorum in Stati che votano in base a una legge elettorale di tipo proporzionale. Questo ha comportato il fatto che le vittorie di Romney sono state quasi sempre assolute, laddove quelle di Santorum sono state spesso relative, giacché, pur talora arrivando secondo o addirittura terzo, Romney ha sempre potuto comunque ottenere qualche delegato in più, prezioso per il conteggio finale. 

Con Romney si è poi progressivamente e palesemente schierato prima l’establishment poi il gotha del Partito Repubblicano, e questo ha esercitato il suo peso specifico sia catalizzando sull’ex governatore del Massachusetts l’attenzione dei grandi donatori di denaro e dei media, sia aggiungendo al conto totale dei delegati i pochi ma sempre per Romney utili cosiddetti “superdelegati”, quelli che non vengono scelti attraverso il voto popolare ma assegnati d’ufficio dalle strutture del partito.

Sommando il tutto, è accaduto che, nonostante i successi oggettivamente assai rilevanti, Santorum si è trovato lentamente ma inesorabilmente spinto verso i margini della competizione, raggiungendo adesso il punto di non ritorno, oltre il quale l’avventura sarebbe platealmente proditoria.

Ciò non significa però che Santorum non abbia mai avuto chance: significa che ora le sue possibilità hanno raggiunto lo zero, e la cosa non è identica.

Il ritiro, dunque, adesso è inevitabile. Perché è ora il momento migliore per farlo? Per diverse ragioni. Ora Santorum ha praticamente finito i soldi a propria disposizione, mentre Romney no. Ora Santorum dovrebbe imbarcarsi in lunghe settimane – quelle comprese tra il 3 e il 24 Aprile – di una campagna elettorale estenuante che però non gli dà la possibilità di passare all’incasso del voto. La pausa delle primarie gioca infatti a favore di candidati ricchi e potenti come Romney, non certo di chi si deve sudare tutto momento dopo momento come Santorum. E una partita “alla cieca” così, che chiede sacrifici enormi senza che si possa fare immediatamente cassa di voti, prevede un investimento a lungo termine che solo Romney può organizzare. E ora Santorum dovrebbe intraprendere questa corsa senza uscita per poi, alla ripresa dei turni elettorali, sottoporsi subito – estenuato, certamente indebolito dall’offensiva di Romney – al voto di un nugolo di Stati che certo non lo favoriscono (Connecticut, Delaware, New York e Rhode Island, dove si vota il 24 aprile) a cui si aggiunge la sua stessa Pennsylvania. La Pennsylvania è però per lui uno Stato infido. Lo premiò quando c’era da premiarlo, ma lo bocciò inesorabilmente quando forse non c’era da bocciarlo ma così comunque andò. E la Pennsylvania è uno Stato della laicizzante e liberal Costa Orientale (come appunto il resto degli Stati dove si vota il 24 Aprile), in cui non è mica detto che l’offensiva risolutamente conservatrice di Santorum abbia successo. 

Ebbene, se Santroum perdesse (come non è affatto escluso) nella sua Pennsylvania, con quale faccia potrebbe gareggiare oltre? E così, mettendo tutto assieme, Santorum si ritira oggi perché comunque sarebbe costretto a farlo domani; lo fa, visto che lo deve fare, prima di una possibile débâcle nella sua Pennsylvania, che rovinerebbe tutto; e lo fa prima di sprecare anche gli ultimi denari a propria disposizione, visto che per lui spendere ancora nella corsa alla nomination sarebbe da adesso uno spreco gratuito. Vi sono anche motivi personali, ovvio, come l’aggravarsi delle condizioni di salute della figlia Bella, di tre anni, già affetta da Sindrome di Down; ma il succo politico è questo.

Tutto in fumo, dunque? Il futuro dietro le spalle? Un colossale fuoco di paglia? Niente affatto.

Ritirandosi ora, Santorum sceglie di andarsene all’apice del successo, non rinnega uno iota di quanto fatto, lascia il migliore dei ricordi possibili, è ancora in tempo utile a “riciclarsi” e le sue armi migliori le può ancora mettere al servizio di quella buona, ottima battaglia che è la ricerca della sconfitta finale e definitiva di Barack Obama all’inizio di Novembre.

L’exploit “da brivido” cui Santorum ci ha abituati da gennaio resta infatti negli annali della storia. Nessun candidato “cadetto” alla nomination presidenziale che abbia avuto un programma graniticamente conservatore come il suo ha mai fatto tanto bene e così a lungo nelle primarie, conquistando così tanti Stati, vincendone ancora diversi quando i parvenu già lo davano temerariamente per spacciato, dividendo dove bisognava dividere e unendo dove era opportuno unire. Alla vigilia, nessuno scommetteva su di lui, il candidato “povero” e troppo “estremista”, e invece lui ha saputo ricacciare in gola a tutti certi giudizi francamente inutili.

Per Santorum hanno votato i conservatori, la gente dei “Tea Party”, i cattolici e gli ‘evangelicali’. Non tutti, ma tantissimi. Con lui, il cattolicesimo integrale è entrato a testa alta nelle sfere supreme della politica statunitense, senza vergogna, ritrosia o compromesso. Con lui, l’antica e sempre nuova cultura conservatrice statunitense ha mostrato di essere una forza d’urto imponente; e certe vecchie “guerre conservatrici” che Santorum ha volutamente ridestato, sono state risvegliate nel migliore dei modi e per la posta più nobile da giocarsi. Ma la cosa più importante che Santorum lascia ritirandosi è il segno.

Santorum, anche ritirandosi, dice che è possibile farcela. Che il GOP deve diventare conservatore se vuole essere utile alla salvezza del Paese. Che la partita decisiva è solo rimandata.

Poi, da grande signore, da uomo liberamente responsabile, da politico raffinato e da vero capo qual è si è schierato a fianco di chi fino a ieri era il suo rivale. Dal canto proprio, Romney ne ha salutato l’uscita di scena con parole forti, maschie, sincere. Santorum sospingerà, adesso, Romney allo scopo di battere Obama: è la cosa migliore che possa, a questo punto, fare. Così facendo, darà il proprio indispensabile contributo all’auspicata sconfitta di Obama a novembre. Dimostrerà saggiamente che un conto sono le liti in famiglia, anche molto accese, un altro le guerre di civiltà contro i barbari alle porte. E ancora, visti i mesi che ci separano dalla Convenzione del GOP di agosto in Florida e poi dalla sfida presidenziale di novembre, l’ex senatore della Pennsylvania ha ancora tutto il tempo necessario per riallineare sé e i suoi dietro a Romney onde ottenere da Romney qualcosa di prezioso in cambio.

Cosa farà Santorum “da grande”? Davvero troppo presto per dirlo. Molto dipenderà da cosa accadrà in novembre.

Se Romney vincerà contro Obama, Santorum o comunque il suo “giro” potrebbero avere qualche chance non di secondo piano a fianco del nuovo presidente Repubblicano. La sfida interna al partito sarebbe rimandata e così pure eventuali nuovi sogni presidenziali di Santorum. Per otto anni. Perché se Romney vince la Casa Bianca nel 2012, il GOP lo ricandiderà nel 2016 e così, comunque andrà allora, Santorum potrà correre di nuovo nelle primarie solo nel 2020. Se invece Romney a Novembre dovesse perdere, Santorum potrebbe subito tornare alla ribalta puntando il dito – dopo le elezioni – contro il moderatismo che non vince né convince. In questo caso, l’ex senatore della Pennsylvania dovrà rimboccarsi subito le maniche per pensare al futuro.

Nel primo caso, quello che descrive la prospettiva di più lungo termine, l’intera ala conservatrice del GOP, e la Destra dentro e fuori il partito, avrà il tempo utile a finire il lavoro iniziato e sin qui egregiamente svolto: eliminare il centrismo dal partito, dopo avere stroncato la Sinistra interna. Del resto, il primo grande momento di questa scalata decisiva del partito da parte del mondo conservatore, l’eliminazione cioè dei suoi esponenti liberal, è avvenuto durante il regno di un Repubblicano “non estremista” alla Casa Bianca (2000-2008, con George W. Bush jr. in sella) e in pendenza di una vittoria del GOP al Congresso (2010). L’eliminazione del centrismo dal GOP potrà dunque ben avvenire mentre è un suo esponente a offrire ai propri stessi “killer” la necessaria copertura dal fuoco esterno guidando i vertici del Paese.

Nell’uno e nell’altro caso, Santorum, qualsiasi cosa egli immagini per il proprio futuro, dovrà vedersela con altri contendenti, epperò tutti di destra. E la cosa migliore che ognuno di loro, Santorum in testa, possono fare da adesso in poi è lavorare là dove conta, ovvero prima della politica politicante: nell’educazione alternativa, nel “movimento”, nel “sociale”, dentro e mediante le fondazioni, i think tank, gli advocay group, con gli strumenti mediatico-culturali che esistono e con quelli che si possono creare, con e tra la “gente”, assieme e mediante il “popolo delle Chiese”. Insomma, là dove si allevano per tempo e poi si coltivano i voti della vittoria.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana