Santorum vince in Mississippi e Alabama: ora è lui l’unico conservatore

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Santorum vince in Mississippi e Alabama: ora è lui l’unico conservatore

14 Marzo 2012

La riscossa viene dal Sud. Martedì 13 marzo, Rick Santorum ha assaporato due rotonde vittore in Alabama e in Missisippi, là nel meridione più profondo che negli States ci sia, in luoghi carichi di storie davvero tutte particolari, in angoli chiave del più irriducibile retaggio confederato, insomma nella “provincia della provincia” e nella “pancia della pancia” del Paese.

In quegli Stati, Santorum veniva dato per vincente già da giorni, e l’unico rivale giudicato in grado di rodergli qualche risultato era Newt Gingrich, non Mitt Romney, come appunto è stato. E infatti, tanto in Alabama quanto in Mississippi, Romney è giunto terzo.

Gingrich, del resto, già forte del successo ottenuto in Georgia nel “Super Tuesday” del 6 marzo, ha sempre puntato tutto sugli Stati del Sud. Ma adesso Santorum mostra di saperlo battere anche laggiù, interpretando evidentemente meglio di lui la voglia di conservatorismo di quelle lande. Una grande evidenza s’impone dunque adesso. E cioè che Gingrich è fuori dai giochi.

I numeri che sin qui ha ottenuto, infatti, lo penalizzano. In nessun caso potrà cioè spuntarla contro alcuno dei suoi avversari, nemmeno (l’inarrivabile – per tutti? ‒ Romney a parte) contro Santorum. Sarebbe insomma arrivato il momento di ritirarsi con onore. Il momento perfetto.

La prova sin qui concessa al pubblico americano da Gingrich è infatti indubitabilmente maiuscola. Gingrich ha saputo mettere a tema argomenti decisivi, di cui varrà ancora la pena parlare e che certamente non scoloriranno a breve. Ha saputo mostrare muscoli poderosi e denti aguzzi.

Ha catalizzato un parte assai significativa del voto conservatore, dando a esso ragioni, motivi, temi, passione. La sua è certamente stata molto più che una semplice testimonianza, una mera candidatura di bandiera. Adesso è però il momento non di abbandonare il campo sfilandosi con la coda fra le gambe, ma di dare un senso pieno e maturo a questa battaglia politica.

Sarebbe cioè ora che Gingrich facesse confluire le sue preferenze su Santorum, indicando lui al voto dei suoi, spostando su di lui forze ed energie decisive e consegnando a lui i delegati fino a oggi conquistati. In questo modo, il voto conservatore, oggi diviso (anche virtuosamente) tra Gingrich e Santorum, troverebbe una unità assai importante, una compattezza capace d’insidiare ancora meglio Romney. E qualora non riuscisse a insidiarlo, almeno a pungolarlo in modi che, se amministrati con sagacia e strategia, potrebbero trasformarsi in arma vincente.

Appena dopo la vittoria del 13 marzo, Santorum ha apertamente chiesto questo a Gingrich, riprendendo opportunamente le fila di un discorso antico che in realtà non si è mai davvero interrotto e che però ultimamente era stato congelato. Dopo i primi successi ottenuti da Santorum e da Gingrich alle spalle di Romney nelle settimane di apertura delle primarie, nel momento in cui apparve subito chiaro che l’ex governatore del Massachussetts era l’uomo che dentro il GOP la Destra avrebbe dovuto cercare di battere, e che alle sue spalle i più titolati (almeno allora) a contestargli la pole position per la nomination erano l’ex senatore della Pennsylvania e l’ex presidente della Camera federale, Santorum e Gingrich cominciarono a invitarsi vicendevolmente a lasciare il campo onde non dividere il fronte conservatore.

Fino a oggi, però, entrambi, seppur a titolo diverso, hanno avuto ragioni fondate per non fare quel passo indietro. Oggi è invece palese che l’unico a potersi, e forse a doversi, fare da parte è Gingrich. Il quale potrebbe peraltro diventare un eventuale buon ministro. Alla Segreteria di Stato, magari, in una ipotetica amministrazione Romney.

Martedì, in Alabama Santorum ha ottenuto il 34, 53% dei suffragi (pari a 206.166 voti), Gingrich il 29,29% (174.855 voti), Romney il 28,98% (172.994 voti) e Ron Paul il 4,97% (29.669 voti). Risultati praticamente identici sono stati totalizzati contemporaneamente in Mississippi, dove Santorum ha conquistato il 32,89% dei suffragi (93.180 voti), Gingrich il 31.30% (88.674 voti) Romney il 30,33% (85.921 voti) e Paul il 4,41% (12.499 voti).

Si è votato anche nelle Isole Samoa Statunitensi e nelle Hawaii. Per le Hawaii è stata la prima volta: da quest’anno, infatti, si svolgono anche lì caucus analoghi a quelli celebrati in altri Stati, laddove in precedenza i delegati in palio per la Convenzione nazionale venivano assegnati a questo o a quel candidato dall’apparato locale del GOP senza ricorrere al voto popolare.

Nelle Isole Samoa Statunitensi e nelle Hawaii ha vinto Romney (come già era accaduto il 10 marzo nelle Isole Vergini Statunitensi, a Guam e nelle Isole Marianne Settentrionali): un risultato, questo, che non va sottovalutato e che sottolinea un fatto decisivo. In luoghi così “periferici”, persino “estremi”, è solo Romney, tra tutti i candidati Repubblicani oggi in corsa, ad avere strumenti e mezzi adatti a condurre campagne elettorali vere e quindi a ipotecare tutte le vittorie, praticamente senza antagonisti.

Finisce così che, quasi non visto, Romney racimola anche quel po’ di delegati “di contorno” messi in palio da regioni del Paese come quelle, aumentando in modo costante ma meno appariscente che altrove il proprio gruzzolo utile per la Convenzione nazionale di fine agosto. Per questo motivo ‒ com’è stato giustamente osservato da più parti ‒, i trionfi innegabili ottenuti da Santorum nel Midwest e ora nel Sud vengono sempre stemperati dai guadagni “impercettibili” ma inesorabili di Romney.

Il bilancio parziale dopo questo “giro nel Sud”? Parità, ovvero vantaggio oggettivo per quel che Santorum rappresenta in termini politico-culturali. Affinché questa parità virtuosa non si trasformi però in paralisi, adesso sono gli altri che debbono dire e fare adesso qualcosa di assolutamente significativo gli altri. Prima Gingrich, ma poi subito dopo soprattutto Romney.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana