Santorum vince la Louisiana e la tenzone con Romney resta aperta
26 Marzo 2012
Un’altra imponente vittoria per Rick Santorum, un altro Stato del profondo Sud che premia il candidato più conservatore di tutti. Era nelle previsioni, e tuttavia è un risultato che ancora meraviglia. Perché, se il dato conferma la profonda spaccatura che divide il Paese fra una “provincia” conservatrice che nella corsa alla nomination presidenziale 2012 premia il candidato più simile a sé e il mondo “disincantato” delle “metropoli” più in linea con le politiche del candidato centrista, il fatto che ancora a metà di marzo, dopo un numero oramai cospicuo di Stati dell’Unione interpellati dal voto, la gara sia ancora così tanto aperta meraviglia ogni giorno di più persino chi i meccanismi delle elezioni statunitensi li conosce non da oggi.
In Louisiana sabato 24 marzo Santorum ha sbaragliato gli avversari conquistando il 48,99% dei suffragi espressi (pari a 91.305 voti): Romney è giunto secondo con il 26,69% (49.749 voti), Newt Gingrich terzo con il 15,91% (29.655 voti) e Ron Paul quarto con il 6,15 % (11.460 voti). Santorum ha cioè preso il doppio dei voti di Romney, e pure Gingrich ha ottenuto un numero davvero alto di consensi: il che ancora una volta mostra come, potendo sommare i voti politicamente simili di Santorum e di Gingrich, l’ala destra del Partito Repubblicano si avvicinerebbe all’imbattibilità.
La gara delle primarie, infatti, è ancora aperta. Non certo perché sia in dubbio il nome di chi alla fine otterrà l’investitura del GOP per sfidare Barack Obama in novembre. Sarà Mitt Romney. Ma, visto che Santorum non smette di tallonarlo mantenendo costante il suo divario, quello che fino a oggi è stato un auspicio adesso diviene un appuntamento improcrastinabile. Romney deve patteggiare con Santorum la proposta di squadra di governo con cui pensa di sfidare Obama.
L’ex governatore del Massachussetts non può infatti permettersi d’ignorare più quell’enorme parte dell’elettorato Repubblicano che continua a preferirgli Santorum; e se non vuole perdere lungo la strada questa parte preziosa dell’elettorato, deve trovare il modo per legarsela a sé indissolubilmente, concedendo spazi politico-culturali importanti. La sfida vera delle primarie adesso è questa. Romney sa già benissimo che non può affatto fare a meno dell’“ala Santorum” dell’elettorato (più che del partito).
Adesso questa certezza la deve comunicare in pubblico e a voce alta. Lo iato che divide Romney e Santorum in termini di voti ma soprattutto di denaro sta lentamente logorando il secondo, ovvio; ma anche solo quanto fin qui fatto da Santorum è sufficiente a condizionare fortemente il futuro di Romney. Prima, dunque, Romney farà concessioni determinanti al “mondo di Santorum” e meglio sarà. Santorum lo merita, il suo elettorato ancora di più, e Romney deve prenderne atto.
Romney lo deve fare in pubblico, certo; ma non c’è affatto bisogno che egli scopra le sue carte ora, purché però le giochi. Per le dichiarazioni formali c’è infatti tempo, c’è sempre tempo; e il tempo migliore per questo tipo di cose solitamente è la Convenzione nazionale del partito, che raccoglie i frutti delle primarie, confezionando la sfida presidenziale finale. Romney, insomma, può – forse deve… – continuare a sfidare apertamente Santorum in vista e in occasione delle prossime scadenze elettorali: fa parte del gioco, è nello stile delle primarie, serve utilmente alla propaganda.
Ma siccome il “dato Santorum” è, nella sua storica unicità, assolutamente incancellabile, Romney potrebbe cominciare ad avanzare adesso le proprie concessioni decisive in modo discreto eppure non meno sostanziale. Se infatti Romney pensa di potere sconfiggere Obama con un programma centrista, alle presidenziali finirà al massimo per ottenere un numero di voti proporzionali a quelli che sta ottenendo nelle primarie ma appunto insufficienti per trionfare di netto. Gli occorre dunque quel colpo d’ala che può assicurargli il necessario salto in termini di numeri elettorali.
Chi lo sa meglio di tutti è Santorum, che proprio per questo spingerà la propria sfida a Romney sino all’ultimo giorno possibile, se non addirittura all’ultimo disponibile, impegnando ogni dollaro che rimane nelle sue tasche elettorali per alzare sempre più il prezzo dell’appoggio. Se combatterà quest’ultima battaglia con la determinazione e la lucidità con cui si è sinora schierato, saranno i denari meglio spesi di tutta la sua grandiosa cavalcata politica.
Quelli, cioè, che non solo serviranno a battere Obama, ma che saranno strategici soprattutto e anzitutto per batter quell’avversario al meglio delle possibilità che il Paese sa mettere in campo. Vale a dire imprimendo una svolta decisiva all’intera politica statunitense, oggi con Obama avviata inesorabilmente al baratro. Una vittoria, cioè, dal sublime sapore restauratorio: quella che un numero crescente di americani agogna come l’aria da respirare.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.