Sarah Palin conta e come nella politica Usa e ciò malgrado le idee di Zucconi

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Sarah Palin conta e come nella politica Usa e ciò malgrado le idee di Zucconi

09 Marzo 2012

Che fine ha fatto Sarah Palin? Sono molti a domandarsi perché l’ex candidata Repubblicana alla vicepresidenza federale non si sia buttata nella mischia delle primarie di quest’anno, forte della sua rinnovata popolarità nel mondo conservatore, magari come punta di diamante di quella galassia dei “Tea Party” di cui ha saputo interpretare bene lo spirito nel 2009 e 2010, e che ancora stravede per lei. E a leggere il carico di livorose contumelie con cui Vittorio Zucconi su la Repubblica dell’8 marzo non festeggia questa donna, riempiendo in compenso una mezza pagina di inutilità e di non-informazioni, non si impara certo nulla di nuovo sul suo conto.

Zucconi incarna del resto – professionalmente parlando – quel malcostume tipicamente italiota, e praticatissimo dai corrispondenti italiani, che consiste nel vendere il proprio nulla come una notizia, di stare attaccati da mane a sera alla tivù in una comoda poltrona di qualche studio di Washington fingendo di “essere sul pezzo” (come si fa a fare una cronaca sull’Alaska standosene a più miglia di distanza di quante ne corrono tra lì e l’Italia?), di non accorgersi mai di ciò che accade oltre gli schermi del televisore epperò al contempo di fare i parvenu perché una come la Palin signoreggia negli studi di Fox News (Zucconi definisce faziosissima quel network, evidentemente conosce bene cosa significa essere faziosi fingendo di fare informazione) e di inerpicarsi sui vetri della propria stanza per cercare di giustificare quel controsenso che dice che (ma non è vero) di Sarah la gente “normale” (?) aveva perso le tracce esclusi gli addict tv e poco dopo però ricordare che il suo libro (nondi ce quale) ha venduto 2 milioni di copie…

A questo punto, l’unica che saprebbe rispondere in modo esauriente al quesito è solo lei, ovvio; ma lei a rispondere non ci pensa, anzi glissa la domanda. Si possono dunque fare solo supposizioni. La più sensata parrebbe del resto essere quella che dice che, in realtà, nelle primarie Repubblicane 2012 per l’ex governatrice dell’Alaska non c’è spazio. Tutti riescono a vedere con chiarezza che la gara ora in atto fra i vari sfidanti a chi sa presentarsi come il più conservatore di tutti gli altri messi assieme sta finendo per mettere i conservatori l’uno contro l’altro. Il vero problema di queste primarie, infatti, è che vi sono candidati che si contendono esattamente il medesimo elettorato, e in misure e forme che hanno ben pochi precedenti (o i cui precedenti non hanno mai interessato tutti i candidati Repubblicani in lizza, ma solo alcuni di loro), finendo per aggiudicarsene solo delle quote.

Lo spostamento sensibilmente a destra, cioè, del baricentro del Partito Repubblicano fa sì che, oltre ad avere emarginato l’ala più liberal del GOP, che in sé è cosa ottima, i candidati in gara si presentino con programmi sostanzialmente analoghi, con parole d’ordine simili, insomma con troppe ripetizioni. È uno dei guai tipici dell’“età dello sviluppo”; non c’è da preoccuparsi perché si muterà tutto in salute; ma a breve e a brevissimo termine la cosa potrebbe generare contraccolpi sgraditi. L’affluenza del popolo Repubblicano negli Stati che già hanno celebrato caucus o primarie è stata mediamente bassa. È il segno evidente dell’imbarazzo: imbarazzo di quella parte dell’elettorato Repubblicano non di prassi entusiasmato dai conservatori, il quale fatica a identificarsi con i candidati ora in gara, magari persino con Mitt Romney; più l’imbarazzo del coté conservatore, che a volte non sa letteralmente cosa scegliere per troppa abbondanza.

Ebbene, in questo quadro una Palin candidata sarebbe stata a maggior ragione di troppo. Sì, si obietterà, ma lei avrebbe avuto la forza d’imporsi con più facilità sugli altri concorrenti. Forse, ma tutto la Palin vuole fare tranne che trovarsi costretta a criticare o persino a denigrare un “fellow conservative”. L’“undicesimo comandamento”, coniato a su tempo da Ronald Reagan (1911-2004) diceva che mai e poi mai un Repubblicano deve sparlare di un collega Repubblicano: ecco, il “dodicesimo comandamento”, inventato ora dalla Palin, è “mai dire male di un altro conservatore”. Nonostante discussioni, alterchi e persino faide, questa è del resto stata dottrina comune proprio fino all’“era Reagan”, ma le “guerre tra conservatori” iniziate negli anni 1980 e mai davvero finite, hanno cambiato molte regole, quelle che la Palin ora si sforza di ripristinare. E per Sarah l’intangibilità di quel comandamento resta, nonostante non sia un mistero per alcuno che tra lei e Mitt Romney non corra ottimo sangue, e che nella sua Alaska, dov’è registrata per il voto, abbia scelto Newt Gingrich.

In questa sua azione c’è coraggio, e molto, molto merito. Lo spostamento a destra della media politico-culturale del Partito Repubblicano potrebbe infatti finire per trasformare profondamente le quinte su cui il GOP si troverà a muoversi in un futuro forse nemmeno troppo lontano. Orfano, si fa per dire, di un’ala sinistra, i suoi contenziosi il GOP sarà cioè sempre più portato a giocarseli “in famiglia”. Se li trasformerà in liti furibonde, ipotecherà fortemente la riuscita di un esperimento politico tra i più arditi e affascinanti che mai si siano visti, ovvero la trasformazione di un intero partito da forza politica progressista ed elitaria a “casa comune” conservatrice e di popolo (l’unico altro esempio di una trasformazione tanto radicale è quella che interessa, specularmente, il Partito Democratico che, da formazione conservatrice e grassroots, si è mutato in un partito relativista, con i Kennedy e i Kerry pure riccastramente snob). Se invece saprà gestire la situazione con il savoir faire che la Palin sta cercando d’insegnare a tutti avrà fatto la più classica delle tombole.

I cronisti, che fanno il loro mestiere, incalzano ora da destra e da manca la Palin per sapere a chi vanno i suoi favori politici, chi lei preferisce tra tutti i candidati in gara, chi insomma lucrerà il suo endorsement, e lei se ne sta muta come un pesce. Ha parole di apprezzamento per tutti e per ognuno, e quando le si fa notare che il non prendere posizione equivale a dire che nessuno dei concorrenti è soddisfacente, lei annuisce e trasforma con dolcezza materna questa debolezza in forza. Accetta, cioè, l’idea che ancora non vi sia il concorrente che ha saputo trasformarsi nel candidato ideale, ma usa questa idea come un cordiale multivitaminico: dice, cioè, ognuno può ancora farlo, persino Romney, cui la Palin riconosce candidamente di avere comunque fatto passi da gigante verso destra, quindi – applicandosi – di poterla spuntare.

Evidentemente Sarah in cuor suo un nome ce l’ha, ma lo tiene stretto; preferisce il ruolo di “mamma di tutti i conservatori”. Perché? Per il motivo vero per cui assai probabilmente non si è candidata. Può fare di più e meglio fuori, accanto e attorno ai candidati, al centro e in mezzo al movimento. Le lotte tra Repubblicani conservatori in cerca di nomination sanno infatti farsi dolorose: ma la Palin sa bene che sono le doglie del parto di una creatura nuova, attesa da un destino promettente; e ancora meglio sa come alleviarle. La Palin è più presente in queste primarie standosene fuori che dentro. Al CPAC – la Conservative Political Action Conference svoltasi a Washington dal ­9 all’11, cioè il “congresso” del gotha del mondo conservatore che mantiene legami strutturali con la politica pure partitica – è stata una delle grandi vincitrici morali.

Il suo consiglio è cercato ovunque, il suo giudizio se lo litigano i media conservatori, e probabilmente dà fastidio “agli altri”: a ogni tipo di liberal e a qualsiasi forma di establishment, che certo non può sopportare quel che di buono, pur nelle sofferenze, sta accadendo dentro il GOP (non da ultimo l’alleanza sempre più strutturale e decisiva del partito con la galassia conservatrice). Tant’è che la rete televisiva HBO ha girato e sta per mandare in onda una fiction dedicata alle elezioni perse dai Repubblicani nel 2008, Game Change, il cui vero target è lei. Tratto dal libro omonimo Game Change: Obama and the Clintons, McCain and Palin, and the Race of a Lifetime (Harper, New York 2010), pubblicato dai giornalisti liberal Mark Halperin di Time e John Heilemann del New York, assomiglia più alla fantascienza che alla storia.

E spreca una occasione ottima per ricordare al mondo due verità tombali di quel 2008. Anzitutto che Obama trionfò grazie a quel surplus di voti che fu capace di mobilitare praticando al meglio tecniche di marketing politico Repubblicane e conservatrici, che però il GOP e suoi sostenitori al tempo si scordarono di praticare (e Obama ci giocò molto anche sulla sua faccia nera). Quindi che i Repubblicani persero relativamente poco, in termini di voti assoluti, e questo per merito proprio della Palin, la quale salvò la faccia bianca di John McCain da quella ben più grave emorragia di voti che senza di lei avrebbe funestato l’adieu di George W. Bush jr. 

Ora, questo rimarrà agli atti della storia, mentre il resto è pula. Certo, per dirlo occorrerebbe smetterla di fare le Sabina Guzzanti del giornalismo e raccontare la verità anche quando dispiace, ma pure questa è fantascienza. Lo sceneggiato della NBO? La première è fissata per sabato prossimo, 10 marzo. Sarah dice che nemmeno lo guarderà. Secondo me Zucconi invece sì. Alla fine il mondo resterà quello di prima, con le sue cose belle e i suoi personaggi grandi contro le cose brutte e certi tipi meschini (indovinate voi chi è chi).

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.