Sarebbe meglio pensare al Tibet dopo il Dalai Lama
18 Luglio 2011
Sulla Stampa di ieri, il sempre attento Maurizio Molinari sottolineava che stavolta, a differenza del primo incontro nel febbraio del 2010, il Presidente Obama non ha trattato il Dalai Lama a pesci in faccia facendolo uscire dalla porta di servizio per paura della reazione di Pechino. Stavolta, dice Molinari, Tenzin Gyatso è stato accolto onorevolmente nella Sala delle Mappe della Casa Bianca ed è stata anche diffusa una foto dell’incontro che ritrae i due mentre conversano davanti a una tazzina di tè. Si è parlato del rispetto dei diritti umani e Obama ha chiesto ai cinesi di stabilire un dialogo con l’autorità tibetana in esilio, posto che l’amministrazione americana considera il Tibet parte integrante della Repubblica Popolare. Un atteggiamento conciliante prevedendo la reazione muscolare di Pechino che nel weekend ha parlato di un "duro colpo" alle relazioni sino-americane.
Ieri, in concomitanza con la prossima visita del ministro degli esteri Franco Frattini in Cina, sull’argomento è tornata anche la deputata del Pd al Parlamento europeo, Debora Serracchiani, chiedendo al titolare della Farnesina di "non dimenticare" la questione dei diritti umani in Tibet: "Nessuno è tanto ingenuo da non capire l’importanza della partnership strategica con la Cina", ha detto la Serracchiani, "dato che quel Paese può contribuire in modo fondamentale alla stabilità dei mercati e all’assetto dei debiti sovrani, di cui l’Italia in questo momento ha estremo bisogno. Tuttavia le recenti vicende dei Paesi del Mediterraneo dovrebbero averci insegnato che non è saggio tenere separata la partita degli interessi economici da quella sui diritti umani".
Che i cuori si scaldino per il Dalai Lama è ormai un copione risaputo e se la Serracchiani cerca un modello, insuperato, di lotta per la battaglia dei diritti umani in Tibet le suggeriamo di volgere lo sguardo al predecessore di Obama, George W. Bush, che nel 2007 concesse (ingenuamente?) a Gyatso la più alta delle onorificenze, la Medaglia d’oro del Congresso degli Stati Uniti, fregandosene della reazione di Pechino. Ma detto questo forse è venuto il momento di fare una breve riflessione, per sommi capi e contingente quanto può esserlo un articolo giornalistico, sulla figura del Dalai Lama e su cosa ha ottenuto in decenni di battaglie per la libertà nel suo Paese.
Il giudizio non è del tutto positivo, checché se ne dica. Gyatso è sicuramente riuscito a far rimbalzare la questione tibetana sulle prime pagine di tutti i giornali, a far sposare la "causa" dell’indipendenza del Tibet dalla Gilda hollywoodiana, a darle un valore universalistico, legandola alle battaglie (sacrosante) per la libertà di culto e la libertà individuale, per la non violenza, per la compassione verso il prossimo. Il Dalai Lama è stato una guida politica e spirituale per il suo popolo e gli va anche riconosciuto il merito di aver fatto un passo indietro nel marzo scorso (forse ha aspettato troppo). Ha ricevuto il Nobel per la pace e tanti altri importanti riconoscimenti ed oggi sembra pronto a benedire una nuova classe politica laica che avrà il compito di raccogliere i frutti della sua eredità.
Ma a pensarci bene la mediatizzazione della questione del Tibet non ha fatto fare grandi passi avanti al popolo tibetano che continua periodicamente a ribellarsi alle autorità cinesi (dal 1959 al 2008) senza che si riesca a stabilire un serio negoziato con Pechino. Dopo l’occupazione, Gyatso cercò prima di scendere a patti con Mao (fu delegato alla prima sessione del National People’s Congress e avrebbe conservato formalmente un incarico in commissione fino ai primi anni Sessanta), poi si rifugiò in India grazie alla Cia, nella "Piccola Lhasa" divenuta in pochi anni un punto di attrazione per i dissidenti tibetani; ma da allora la situazione non è cambiata molto, al di là dell’attenzione mostrata dai media e dai governi occidentali.
Per cui, lo diciamo un po’ provocatoriamente, Frattini dovrebbe certo porre ai nostri interlocutori cinesi la questione dei diritti umani, ma anche iniziare a valutare chi sarà, o quali saranno, i successori del Dalai Lama nel futuro prossimo; un esercizio che probabilmente sarebbe di giovamento anche alla amministrazione Obama. Una volta, un ufficiale sudafricano disse che a parlar male di Gyatso si finisce per sembrare come "uno che vuol prendere a fucilate Bambi". Il consenso acritico verso il Dalai Lama da parte della comunità internazionale col passar del tempo ha rischiato di schiacciare ogni alternativa cristallizzando la situazione.
Ricordare che anche Gyatso ha i suoi scheletri nell’armadio (i finanziamenti ricevuti dalla setta Aum Shinrikyo, l’aver elevato l’attore americano Steven Seagal a reincarnazione di uno dei lama del buddismo tibetano, le persecuzioni ai danni degli "eretici" del Dorje Shugden, come pure l’approvazione dei test termo-nucleari dell’India…) può sembrare sgradevole ma è necessario per inquadrare storicamente il personaggio, nel bene e nel male. Carismatico, capace di esportare il buddismo nel mondo in un cocktail di riformismo, testimonianze personali, film celebri come Kundun e Sette anni in Tibet, il Dalai Lama è stato anche un uomo ripiegato sul passato millenario del suo Paese, non quello idillico ma quello concreto, un vecchio mondo feudale e dominato da una casta religiosa.
Il nostro non vuol essere un ritratto negativo ma uno sprone a pensare il Tibet di domani. Quest’anno Gyatso ha dato le dimissioni dal Governo in esilio. In altre occasioni ha detto che in futuro la carica di Dalai Lama potrebbe essere abolita e che magari il suo successore sarà una donna (e non si trova in Tibet). Chiunque sia, dovrà ripensare la causa dell’autodeterminazione con nuovi strumenti che non siano esclusivamente quelli della comunicazione, sfruttando comunque la visibilità che il 14esimo Dalai Lama ha dato alla causa dalla fine degli anni Ottanta ad oggi.
"Credo che avrei parecchi dubbi se la Cina adottasse da un giorno all’altro il sistema democratico… se l’autorità centrale collassasse, potremmo ritrovarci in una situazione caotica e questo non è nell’interesse di nessuno". Questa frase non è stata pronunciata da un mandarino comunista particolarmente preoccupato dalle continue pressioni sui diritti umani provenienti dall’Occidente; no, sono parole di Tenzin Gyatso.