Sarkò tradisce Israele e dice sì al riconoscimento dello Stato palestinese

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Sarkò tradisce Israele e dice sì al riconoscimento dello Stato palestinese

30 Aprile 2011

Anche la Francia si è aggiunta alle nazioni che hanno deciso di riconoscere bilateralmente la nascita di uno Stato palestinese entro i confini persi nella guerra arabo-israeliana del 1967 con Gerusalemme est come capitale. La scorsa settimana il premier Abu Mazen ha incontrato l’omologo francese Nicholas Sarkozy intenzionato, sembra, ad essere favorevole alla proclamazione unilaterale dello stato di Palestina il prossimo settembre, quando si riunirà l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Dunque la Francia si aggiunge ai 110 membri dell’Onu sui 192 attuali (tra cui 153 stati islamici) che già riconoscono l’Autorità nazionale palestinese (Anp) come Stato. Una scelta concertata con l’Unione europea disposta a stanziare 5 miliardi di dollari in aiuti per costruire le istituzioni della futura nazione (1.467 miliardi di dollari nel 2011, 1.754 nel 2012 e 1.596 nel 2013).

L’avverabile voto della Francia oltre ad avere un valore specifico quantitativo ha soprattutto un valore qualitativo da declinare come l’ennesima dimostrazione della force de frappe dell’Eliseo per distanziarsi dall’Atlantico, tuttora bisognoso di un autorevole Commander in Chief. Dagli accordi di Evian del 1962, con cui l’Algeria venne riconosciuta indipendente, la politica estera della Francia ha sempre mirato ad acquisire prestigio e autonomia ma in contrasto con NATO, Stati Uniti e relativi alleati -come Israele.

Questo è uno dei motivi che nel corso degli anni, solo per fare qualche esempio, ha giustificato l’Exagone a ospitare l’esiliato Khomeini, gli assassini degli “anni di piombo”, le menti della strage alle Olimpiadi di Monaco ed a Hezbollah permettere di tenere una lezione alla Sorbonne. Ma usare la causa palestinese è anche un modo per rilanciare il fallito progetto de L’Union pour la Méditerranée, far dimenticare la disastrosa politica estera francese dell’ultimo anno e abbonire gli animi degli oltre cinque milioni di musulmani: una minaccia per la stabilità interna -e le prossime elezioni- soprattutto da quando sono stati stuzzicati dalla legge sulla laicità interpretata dai più come una legge islamofoba.

La Francia ha quindi bisogno di rinnovare il proprio prestigio interno e internazionale, contrastato in ambito europeo solo dalla Germania. Il Bundestag non accetta uno Stato palestinese unilateralmente riconosciuto men che meno se dovesse essere costituito con il separato in casa Hamas. "Noi non consideriamo Hamas un partito, perché noi non cooperiamo con le organizzazioni che lottano per la distruzione di Israele" ha dichiarato il ministro degli Esteri Guido Westerwelle.

Se Berlino confermerà la propria policy sarà un ottimo appoggio per Gerusalemme. A settembre, oltre al probabile riconoscimento della Palestina entro i confini del ’67, ci sarà la terza edizione degli incontri dell’Onu contro il razzismo -manifestazione conosciuta come "Durban 3"- in cui non mancheranno spettacoli antisemiti e antioccidentali. Insomma, ché Abu Mazen abbia scelto proprio settembre per battezzare il nuovo Stato non è certo casuale.

Il rais di Ramallah perde sempre più consensi all’interno del proprio elettorato. Secondo un sondaggio condotto in Cisgiordania tra il 17-19 marzo dal Palestinian Center for Policy and Survey Research e dal Konrad-Adenauer-Stiftung di Ramallah se Abu Mazen quattro mesi fa godeva del 50% dell’appoggio della popolazione a marzo aveva perso almeno 4 punti. Infatti, per il 49% degli intervistati l’attuale leadership palestinese si interessa troppo poco delle questioni vitali del proprio popolo.

Per di più il movimento politico al Fath, capitanato da Abu Mazen, all’interno è diviso tra le nuove generazioni fedeli a Marwan Barghuthi, detenuto nelle carceri israeliane o a nuovi gruppi come l’unità Nabil Masood, scissionisti delle "Brigate dei Martiri di Al-Aqsa" in rotta con Ramallah.

Dal fianco, invece, Abu Mazen deve proteggersi dal primo ministro dell’Anp, Salam Fayyad, uno dei fondatori del partito politico palestinese La Terza Via e ben visto dalla comunità internazionale grazie alle buone relazioni intessute durante gli anni in cui lavorava alla Banca Mondiale. Eppure, nonostante Fayyad sembri un moderato durante la Festa della mamma –in alcune nazioni del medio oriente coincide con il primo giorno di primavera- ha glorificato e ricordato in un discorso pubblico tutte le donne che si sono sacrificate come shaid contro Israele. Poche ore più tardi alla stazione centrale degli autobus a Gerusalemme scoppierà una bomba ma Fayyad, ipocritamente, dichiarerà il proprio cordoglio per le vittime.

In casa Hamas le cose non vanno di certo meglio. Secondo il sondaggio citato poc’anzi il 62% della popolazione della Striscia di Gaza non è soddisfatto delle condizioni di vita imposte dal Movimento islamico che se concorresse ora alle elezioni prenderebbe un mero 26%.

Ma Hamas per riprendere consensi cercherà aiuto al Cairo piuttosto che a Ramallah, a discapito della tanto pubblicizzata unità palestinese. Infatti, il nuovo Egitto si sta dimostrando un alleato sicuro e oltre a rilasciare altri esponenti del movimento terroristico arrestati dal governo Mubarak (questa settimana ancora nove estremisti sono tornati a Gaza) si sta preparando a riaprire in maniera permanente il valico di Rafah verso Gaza. Una scelta sicuramente gradita dalle centinaia di egiziani impegnati in questi giorni a manifestare di fronte all’ambasciata israeliana al Cairo, domandando un’immediata interruzione di ogni rapporto diplomatico ed economico con “il regime dell’Apartheid”.

Pertanto, il futuro prossimo di Gerusalemme è ancora minato da gravi minacce difficili da vedere da un’Europa incapace di riconoscere Israele come condicio sine qua non dell’intero Occidente.