Sbagliato parlare di “condanna a morte” per Eluana
11 Luglio 2008
Un dibattito appassionato quello su Eluana Englaro. Lacerante, certo, sul piano morale e politico ma utile, se condotto con pacatezza e voglia di capire, a far crescere l’attenzione dell’opinione pubblica sulle questioni cruciali della bioetica.
Purtroppo i toni del dibattito stanno invece arroventandosi e l’impressione è che, ancora una volta, si voglia imboccare la via di uno scontro totale: quello tra i fautori della sacralità della vita, per cui essa è un dono di Dio e come tale non disponibile, e i fautori della qualità della vita, per cui essa è un bene a disposizione dell’uomo, che può appunto giudicarne la ‘qualità’ e decidere in merito. Impostato in questi termini, lo scontro è privo di soluzioni.
Chi sostiene la tesi della sacralità ritiene che la vita umana abbia un valore infinito, indipendente dalle sue condizioni, e sia perciò assolutamente inviolabile. Questa tesi, che comporta l’esclusione di ogni giudizio sulla qualità della vita, rischia di condurre al vitalismo,ossia al dovere incondizionato di prolungare la vita, indipendentemente dal fatto che costituisca o no un beneficio per l’individuo. Sennonché, all’interno della stessa visione cattolica, occorre affermare che dovere assoluto non è quello di prolungare ad ogni costo la vita: essa è certo un bene fondamentale, ma non il bene supremo. Chi sostiene, invece, la tesi della qualità della vita adotta un criterio che chiede di agire in vista del miglior interesse del paziente e si pone esplicitamente la domanda se il prolungamento della vita costituisca davvero un bene per lui. Certo, si può obiettare, la valutazione della qualità è inevitabilmente soggettiva e quindi i criteri da applicare dovrebbero esser definiti da una discussione pubblica, all’interno, ad esempio di un comitato etico.
Credo potrebbe essere utile – a proposito delle decisioni relative al ‘che fare’ in situazioni acclarate di stato vegetativo permanente – richiamare alla memoria un caso per molti aspetti significativo come quello di Eluana: mi riferisco a Beniamino Andreatta. I suoi familiari, in una situazione analoga,hanno interpretato la volontà presunta del loro congiunto prendendo, al suo posto, la decisione di mantenerlo in quello stato,ritenendo, sulla base delle opinioni manifestate precedentemente, che tale sarebbe stata la sua volontà. Il padre di Eluana, a sua volta, si è reso interprete della volontà, anch’essa presunta, della figlia, sulla base della conoscenza diretta dei suoi più intimi desideri, oltre che delle concordi testimonianze degli amici. Entrambi hanno cercato di attenersi, il più possibile scrupolosamente, all’esigenza di rispettare la volontà – si badi, nei due casi non espressa – dei loro congiunti, facendosi loro ‘interpreti’, nell’intento di realizzare il ‘loro’ bene.
E’ troppo chiedere un identico rispetto per due decisioni antitetiche ma dettate dallo stesso amore e animate dalla stessa tenace istanza di rispetto dell’autonomia della persona? Questo dovrebbe avvenire in una società liberale.
Perché nel nostro paese non si consente la libertà di poter decidere, nel riconoscimento della legittima diversità delle due visioni del vivere e del morire, entrambe – occorre sottolineare – eticamente fondate? Come sarebbe stato improprio accusare ,allora, i familiari di Andreatta di ‘accanimento terapeutico’ ( la decisione provocò un ampio dibattito,condotto sempre in termini assai rispettosi,anche da parte dei ‘dissenzienti’) così lo sarebbe oggi accusare il padre di Eluana di ‘eutanasia’. Il che invece, purtroppo, sta avvenendo…
Cosa rispondere infine a chi teme si tratti di un pericoloso precedente, che potrebbe “aprir la strada a pratiche eutanasiche”, secondo l’ormai abusato argomento del ‘piano inclinato’? Come sarebbe del tutto ingiusto imporre a tutti la soluzione di Andreatta, così lo sarebbe generalizzare quella di Eluana. Nessuno, tanto meno i familiari di Andreatta, ha inteso indicare una strada valida e egualmente percorribile per tutti né tanto meno prescrivere una linea di condotta universale; allo stesso modo, il padre di Eluana non intende proporre – tanto meno imporre – ad altri la risposta cui è dolorosamente pervenuto: non pretende certo indicare ad altri cosa è bene fare in casi tanto tragici. Gli uni e gli altri si sono limitati a cercare la soluzione più ‘giusta’ per la persona amata: hanno cercato, nei due casi, di dare risposte che corrispondessero il più possibile alle intenzioni, alle volontà, alle credenze dei loro congiunti, non più in grado di farlo. Il che è proprio quello che ci invita a fare
Che cosa rende un corso d’azione migliore di un altro o una decisione più giusta? Non è sufficiente appellarsi ai principi, i quali non possono mai decidere le questioni etiche per se stesse ma, piuttosto, possiamo cogliere la loro forza morale solo studiando i modi in cui essi sono applicati alle situazioni particolari. In bioetica, accanto all’etica dei ‘principi’, esiste un’etica della ‘situazione’ che tali principi si sforza di applicare nelle condizioni concrete, interpretandoli e adattandoli alle diverse persone, nella singolarità irriducibile delle loro condizioni esistenziali…
Eluana Englaro è diventata suo malgrado un caso politico. Vicende come la sua ci fanno comprendere le mutue implicazioni tra la sfera della politica e quella della vita, tra polis e bios. Lo sviluppo tecnologico è talmente rapido da rendere sempre più labili i confini tra la vita artificiale e la morte; problemi privati sono ormai entrati nel campo politico: ciò che era ai confini sta ora al centro. Dalla bioetica siamo così passati alla biopolitica, la quale presenta un’ambivalenza fondamentale: ha una faccia autoritaria, quella con cui lo Stato vuole ingerirsi a tutti i costi nella privacy, entrando nelle decisioni relative al nascere e al morire; ma ce n’è un’altra liberale per cui la scienza può e deve diventare un’alleata dell’individuo, che resta il protagonista delle sue scelte, non un avversario da temere o da combattere. Sta a noi che questa biopolitica prevalga sull’altra.
Un primo passo importante nel lungo cammino volto ad assicurare il rispetto della dignità del malato, come scrive Giancarlo Loquenzi su queste colonne, è senz’altro la legge sul testamento biologico la cui finalità primaria è di fornire ai medici, al personale sanitario e ai familiari, informazioni che li aiutino a prendere decisioni che siano sempre in sintonia con la volontà e le preferenze della persona da curare. Uno strumento giuridico sufficientemente aperto e flessibile –si veda al riguardo il documento del Comitato Nazionale per
Luisella Battaglia è membro del Comitato Nazionale di Bioetica