Scalfaro potè dire “non ci sto!”: Berlusconi invece “ci deve stare”
20 Giugno 2008
Avendo già goduto spensieratamente di una sorta di "lodo Schifani ante litteram", Oscar Luigi Scalfaro deve essersi convinto che oltre allo scranno a Palazzo Madama i trascorsi quirinalizi gli garantiscano anche il diritto di dare lezioni sul tema. Privilegio di cui, a differenza del seggio senatoriale (poco frequentato da quando Romano Prodi è tornato a fare il nonno), l’ex capo dello Stato continua ad usufuire a piene mani.
Come nel caso della conversazione con il quirinalista Marzio Breda, che sul Corriere della Sera ha dato voce ad un appello a Silvio Berlusconi: "Caro presidente – dice Scalfaro dalle colonne del quotidiano di via Solferino -, nell’interesse del nostro popolo, faccia un grosso sacrificio e affronti la sofferenza di una procedura dove penso che le sue dichiarazioni e l’appoggio dei suoi avvocati possano giungere a una soluzione di verità. Il servizio alla cosa pubblica molte volte porta a pagare un prezzo elevato, ma questo è infinitamente più meritorio che assumersi la paternità di una rottura e precipitare il Paese in uno scontro di cui non si comprenderebbe l’esito".
Quindi l’avviso a Giorgio Napolitano ("un’intimidazione mafiosa", l’ha definita senza mezzi termini il senatore PdL Luigi Compagna), allorché Scalfaro ha parlato – riferendosi agli emendamenti al pacchetto sicurezza – di "un intervento legislativo particolarmente anomalo e dichiarato ‘incostituzionale’ da eminenti giuristi", soggiungendo che "il capo dello Stato sa perfettamente quel che serve fare in circostanze come questa. Gli sono fortemente vicino – ha detto il senatore a vita – e non mi permetto di interferire con il suo compito, oggi più che mai delicato. Stamattina me lo sono trovato accanto, quando ho rievocato i 60 anni della Costituzione. E ho chiuso il mio intervento con poche parole: ‘Pensieri, preoccupazioni e speranze rimangono in silenzio… vorrei solo essere capace di invocare che prevalga sempre, a prezzo di ogni possibile sacrificio, l’interesse supremo del popolo italiano".
Del passato, del suo passato, Oscar Luigi Scalfaro ha rievocato solo gli anni in cui era magistrato. Non per fare ammenda della condanna a morte per un giovane repubblichino, chiesta e ottenuta quand’era pm a Novara, ma bensì per irridere Berlusconi, nei cui atteggiamenti l’ex presidente della Repubblica dice di scorgere "il complesso dell’imputato". Tant’è. Non una parola per il vibrante "Non ci sto!" che nel lontano 1993 risuonò a reti unificate. Non una parola per quello stentoreo proclama d’indignazione che con il dibattito di questi giorni ha a che fare più di quanto non sembri. Facciamo qualche passo indietro, e vediamo perché.
Simbolo imperituro della difesa della carica istituzionale (vedi lodo Schifani), quel "Non ci sto!" datato 3 novembre ’93 segue di cinque giorni l’arresto di Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, nell’ambito di una storia di fondi, leggerezze e clientelismi. Malpica, coinvolto nella vicenda con altri funzionari di via Lanza, accusa l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, oggi numero due del Csm, di aver concordato con gli 007 una versione di comodo da fornire a proposito dei depositi sospetti al centro dell’indagine. E prende di petto Oscar Luigi Scalfaro, già inquilino del Viminale e all’epoca presidente della Repubblica, sostenendo che negli anni in cui era stato ministro dell’Interno, dal 1983 al 1987, avrebbe percepito cento milioni al mese dai fondi riservati del servizio segreto civile.
Gli ingredienti per lo scandalo istituzionale in grande stile ci sono tutti. Il Palazzo trema. Le indiscrezioni si susseguono. Tra queste, una ricostruzione, subito seppellita di smentite e controsmentite, parla di un vertice al Quirinale per concordare ai massimi livelli, alla presenza dello stesso Scalfaro, una versione da riferire agli inquirenti per insabbiare la vicenda. Il capo dello Stato decide di irrompere in tv a reti unificate; agita lo spettro del complotto, urla che no, lui non ci sta.
Il giorno successivo la Procura di Roma accusa formalmente gli 007 di "attentato agli organi costituzionali". Un’imputazione da guerra civile. Che, di fatto, argina il torrente di rivelazioni degli imputati-accusatori. Come si sia giunti ad una decisione così estrema, di cui si fatica a trovare confronti nella storia della Repubblica, lo racconta l’ex procuratore aggiunto di Roma Francesco Misiani nel libro "La toga rossa" scritto con Carlo Bonini: "Restava intatto il problema di come intervenire alla fonte del torrente delle rivelazioni che, in ipotesi, avrebbe potuto riprendere a scorrere, travolgendo ogni tipo di decisione fin lì assunta". Il timore, condiviso dai vertici di piazzale Clodio, era che "la procura fosse costretta a inseguire la strategia di rivelazioni a orologeria degli indagati. E fu allora che arrivò in soccorso la trovata di Saviotti", altro pm capitolino. La "trovata" – la cui genesi, come Misiani ricostruisce, fu accompagnata da dubbi e drammatiche lacerazioni – consisteva proprio nel contestare ai funzionari del Sisde il reato previsto dall’articolo 289 del codice penale: l’attentato agli organi costituzionali. Gli 007 si sarebbero trovati addosso un’accusa pesantissima. Da quel momento in poi, ogni ulteriore rivelazione non avrebbe fatto che aggravare la loro posizione già critica. Tant’è che la loquacità che li aveva fino a quel momento contraddistinti s’arrestò di colpo.
Il busillis, però restava. Per anni – non solo nell’era Scalfaro – cento milioni di lire erano mensilmente transitati dal servizio segreto al Viminale. E proprio su questo punto il percorso giudiziario si fece tortuoso. Amintore Fanfani spiegò subito di aver rifiutato quelle somme. Mancino, ministro in carica, fu scagionato per non aver commesso il fatto anche se dovette difendersi dall’accusa di favoreggiamento (il Senato negò l’autorizzazione a procedere). Anche gli ex titolari dell’Interno Antonio Gava e Vincenzo Scotti, indagati dal Tribunale dei Ministri per peculato, dimostrarono che quei fondi non furono mai impiegati per fini non istituzionali, e tantomeno per profitto personale, e furono dunque prosciolti.
Restava il "nodo Scalfaro". Poteva una Procura che aveva incolpato gli 007 di un reato para-eversivo (accusa talmente infondata che si sciolse come neve al sole) incriminare l’ex ministro dell’Interno divenuto nel frattempo capo dello Stato? Neanche a pensarci. Fu così che i magistrati di piazzale Clodio, per trarsi d’impaccio, ricorsero ad una interpretazione piuttosto estensiva dell’articolo 90 della Costituzione, in base al quale – testualmente – "il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione". La faccenda dei fondi del Sisde non aveva nulla a che fare con le funzioni di Oscar Luigi Scalfaro quale Presidente della Repubblica, trattandosi di fatti avvenuti diversi anni prima, quando il Nostro sedeva ancora al Viminale. Ma la linea estensiva prevalse.
Sarebbe interessante sapere se l’Associazione nazionale magistrati ebbe a dolersi di quella decisione. Di certo l’aver fruito di questo "lodo ante litteram" non sembra affatto aver disturbato il diretto interessato, nonostante la scelta dei pm fosse controversa a tal punto che anni dopo, rispondendo ad un’interpellanza del deputato Giacomo Garra, il sottosegretario alla Giustizia Rocco Maggi fu costretto ad ammettere che "l’ampiezza del dibattito dottrinario sulla questione a suo tempo sollevata testimoniava di per sé l’estrema delicatezza e complessità del problema".
Sarebbe fin troppo banale a questo punto infierire sull’atteggiamento di quanti, oggi, si indignano di fronte all’ipotesi di una legge che tenga al riparo le massime cariche dello Stato di fronte ad eventuali iniziative giudiziarie, "congelando" le relative posizioni e sospendendo i termini della prescrizione. Ma l’intervista di Scalfaro al Corriere appare ancor più sbalorditiva di fronte all’epilogo dello scandalo Sisde che ci narrano gli atti della Camera dei Deputati.
Alla fine del settennato, infatti, cessata ogni immunità costituzionale, ci volle un esposto dell’onorevole forzista Filippo Mancuso, già Guardasigilli nel governo Dini, perché la Procura di Roma "scongelasse" gli elementi accusatori emersi a carico di Scalfaro e investisse il Tribunale dei Ministri della faccenda. Non solo: mentre Gava e Scotti avevano dovuto difendersi dall’accusa di peculato, a Scalfaro – che pure rivendicò l’assoluta correttezza istituzionale nell’utilizzo dei fondi del Sisde – fu contestato semplicemente l’abuso d’ufficio, "già largamente prescritto" come ebbe a rilevare Mancuso (l’accusa cadde comunque anche nel merito).
A cosa fosse dovuta la disparità di trattamento, non è dato sapere. Si sa, invece, che l’ex sottosegretario Maggi, parlando a Montecitorio, disse candidamente: "Si pose in evidenza come, alla luce delle valutazioni dell’autorità giudiziaria (la decisione di prosciogliere gli ex ministri dell’Interno, ndr), non potesse che ritenersi provvida, al di là ed indipendentemente dalla sua correttezza in punto di diritto, la scelta di non esporre il Presidente della Repubblica ad un’azione giudiziaria, il cui esito è stato poi possibile verificare dalla sorte di analoga contestazione mossa nei confronti di altri ministri". Della serie: non sappiamo se fu legittimo o meno preservare il capo dello Stato da un’indagine che non riguardava fatti legati alle sue funzioni, ma siccome posizioni simili alle sue sono state archiviate, abbiamo fatto bene comunque.
Di insegnamenti da questa lunga storia se ne potrebbero trarre molti. Preferiamo chiuedere qua, limitandoci ad osservare che – come ebbe a scrivere Augusto Minzolini giusto un anno fa – il magistero etico non è roba per Scalfaro. E che, come rileva Fedele Confalonieri a proposito dell’ex pm di Novara e dei suoi amarcod, "se Oscar Luigi Scalfaro non superò il complesso da imputato, non si capisce perché dovrebbe farlo Berlusconi…".