Scambi d’accuse e clima rovente. Tra Fini e Bondi volano parole pesanti

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Scambi d’accuse e clima rovente. Tra Fini e Bondi volano parole pesanti

01 Luglio 2010

Scintille. Come due mesi fa, quando Fini e Berlusconi se le cantarono chiare alla direzione nazionale del partito. Ieri a Palazzo Marini il faccia a faccia tra il presidente della Camera e Sandro Bondi, ministro e coordinatore nazionale del Pdl, ha confermato ciò che ormai appare evidente e quotidiano tra minoranza (finiani) e maggioranza interna: più che da colleghi di partito i due si sono affrontati da avversari politici, con uno scambio di accuse  che ha lasciato di stucco il pubblico e costretto il moderatore, Pierluigi Battista, a metterci uno stop, chiudendo il dibattito.

In due mesi è cambiato ben poco, nonostante la spola dei "messaggeri di pace" tra Palazzo Grazioli e i piani alti di Montecitorio.Tranne una breve parentesi in avvio (l’occasione è la presentazione della "Rivista di politica" diretta dal finiano Alessandro Campi), tra i due esponenti del Pdl sono venuti fuori tutti i nodi ai quali da mesi è appeso il centrodestra.

Fratture difficili da ricomporre perché le posizioni sono troppo distanti ed è come se ogni volta si scontrassero due visioni antitetiche: su partito, rapporti con la Lega, azione di governo. Fini, sempre così attento alla forma e al ruolo istituzionale, rompe subito gli argini istituzionali (il paradosso è che accade nella Sala Conferenze della Camera) vestendo i panni di capo-corrente e ricalcando il leit motiv di un Pdl che così com’è non gli piace.

Da parte sua, Bondi stigmatizza il "controcanto" quotidiano sul partito e sul governo, uno "stillicidio" pericoloso che "non contribuisce a costruire nulla di buono, anche per il Paese, per il bene comune, primo dovere per il partito che governa". Le distanze sono palpabili anche nei gesti e nelle espressioni del volto: quello di Bondi si infiamma quando il presidente della Camera punta il dito contro la sudditanza del Pdl rispetto alla Lega sul dossier federalismo, o quando tocca i "tasti" Cosentino e Brancher, sventolando il vessillo della legalità.

Fini, invece, sorride ironico e scuote la testa su alcuni ragionamenti del ministro. Sono partiti con Bondi che dà del "lei" a Fini perché ”il tu non riesco a darlo neanche a Berlusconi”, mentre Fini lo esorta a non indugiare col Cav., ma dopo un’ora di acceso botta e risposta sono passati al "tu" accusatorio: immagine plastica del disaccordo. E la sensazione che si è percepita chiaramente è che il presidente della Camera parlasse a Bondi per parlare a Berlusconi.

Come quando pronuncia il suo no ai "partiti-chiesa dove l’ortodossia prevede l’espulsione per eresia. Oggi questo non può esistere" (stesso concetto urlato in faccia al premier nell’infuocata direzione nazionale). Probabilmente, un modo per alzare il tiro sul ddl intercettazioni per il quale Fini vuole correttivi. Non a caso, sollecita il Pdl a  riflettere bene e più a lungo, sopratutto dopo l’allarme del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso secondo il quale – cita – se passa la legge "viene archiviato il concetto di criminalità organizzata".

Il ministro replica che della legge si sta discutendo ormai da mesi e che quello che dice Grasso "non è certo il Vangelo;  questo governo è l’unico ad aver ottenuto risultati straordinari nella lotta alla criminalità, bisognerebbe evidenziarlo".

La miccia l’inquilino di Montecitorio l’accende quando lamenta che oggi esiste un rischio per la democrazia intesa come partecipazione dei cittadini alla politica: "Non esiste più il legame tra eletto ed elettore. E allora non si può tuonare contro la partitocrazia, parlare di partito leggero e matenere una legge elettorale in cui si è nominati". Certo, ammette, "ho colpe anch’io che ho fatto le liste con Berlusconi, ma oggi dico che questo sistema rischia di aprire un fossato tra politica e cittadini".

Il suo chiodo fisso sono i collegi uninominali che, spiega,  favoriscono il radicamento territoriale e sulle preferenze spiega di avere "dei dubbi". Altra questione "calda". Fini parte in quarta sostenendo che nei luoghi del partito in cui di decide "non possono starci i nominati".

Un modo neanche troppo indiretto per rivendicare il congresso "dal quale non si può prescindere perché è lì che si misura l’autorevolezza della classe dirigente". Il problema – incalza il presidente della Camera – "non è Berlusconi, ma da Berlusconi in giù… e continuare a dire non è così non porta da nessuna parte".

Altro affondo: la regola della maggioranza che decide con il voto non può piegare il "diritto al dissenso di opinioni". Eppoi – si domanda caustico Fini – quando chi sostiene idee diverse finisce in minoranza cosa accade? Deve essere costretto ad abiurare le sue idee? No mai, perché "questo è un concetto vicino a logiche non liberali, che ad esempio esistevano nel Pci. Il diritto alla diversità di opinioni non viene meno perché c’è stato il momento catartico e liberatore del voto", incalza.

L’apice della contestazione, Fini lo raggiunge avanzando un sospetto: "Non vorrei che talvolta, con la scusa della conta interna si tentasse surrettiziamente di diffondere il pensiero unico". Certo, un bel salto rispetto al Fini leader di An, esempio storico di partito-caserma. Ma tant’è.

Bondi lo ascolta, tuttavia gli si legge in faccia il disappunto per la reprimenda che, oltretutto, da coordinatore nazionale lo colpisce nel vivo.Tanto è vero che quando arriva il suo turno, non esita a sottolineare che "nelle parole di Fini c’è un vizio di metodo". In questa fase non considera la legge elettorale un tema "dirimente, essenziale, perché lo possiamo affrontare in un ambito più ampio e generale. Ora le priorità sono altre: crisi economica, riforme, modernizzazione del paese".

Al ministro non va giù neppure l’insistenza sull’espulsione per eresia, "non mi risulta che accada nel Pdl, ma la linea nel partito va rispettata e dopo il passaggio del voto tutti sono tenuti a rispettarla". I distinguo di Fini? Per Bondi appaiono "inutili provocazioni, questo è il limite di Fini", del quale "nel Pdl c’è bisogno, ma con le continue differenziazioni non si costruisce il partito, non si aiuta il governo e non si costruisce il futuro dell’Italia. Tu hai grosse responsabilità".

Il botta e risposta sale di tono, con Fini che si dice "preoccupato" per le parole del coordinatore nazionale del suo partito, poi porta il ragionamento su un nuovo terreno di scontro interno: il federalismo. Chiama in causa la "golden share" del Carroccio, rivendica di aver chiesto "da tre mesi al mio partito una commissione per valutare i costi del federalismo, perché non è che se la Lega lo porta in consiglio dei ministri va tutto bene, ma non ho ancora ricevuto risposta". Quindi ribatte il tasto dell’unità nazionale ma Bondi lo stoppa rispondendo che non ci sono problemi nè nel Pdl nè con Bossi. Non basta.

Il presidente della Camera alza il tiro tornando sulla questione della legalità. E denuncia, senza mai citarlo direttamente, la ”non opportunità" che il sottosegretario Nicola Cosentino resti coordinatore regionale del Pdl in Campania "perché in politica bisogna essere come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto" e saper fare "un passo indietro. Non colpevolizzo nessuno, ma pongo un problema di opportunità politica". Bondi si spazientisce e sbotta: "Sono amareggiato, si sollevano questioni minime, noi dobbiamo difendere chi è accusato ingiustamente”.  Il caso Cosentino vale il caso Brancher:  Fini non vuole che "nel Pdl e nel governo ci sia il sospetto che si sia qualcuno che si fa nominare ministro perché non vuole andare al processo. Su queste questioni io continuerò a fare il controcanto” è la chiosa. ”Ma così avremmo i comunisti al governo” è la replica amareggiata, prima dei saluti.

Se al duello Fini-Bondi si aggiunge il fatto che il primo match a via dell’Umiltà tra i finiani Italo Bocchino e Andrea Augello e i coordinatori del Pdl  (incaricati della mediazione con i dissenzienti) non ha prodotto granché  (distanze su tutto, dall’ipotesi del congresso ai "diritti della minoranza), si comprende chiaramente il livello di tensione nel partito e le prospettive che non appaiono rosee. Tutt’altro. Come l’umore (sotto terra) di molti pidiellini ieri in Transatlantico, dove sono rimbalzate le scintille tra Fini e Bondi. Al punto che c’è chi rispolvera l’ipotesi del voto anticipato, magari a marzo, perché "così non si può andare avanti".