Scott Pilgrim, fra cinema e videogame avanza l’epopea dei “nerd”

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Scott Pilgrim, fra cinema e videogame avanza l’epopea dei “nerd”

28 Novembre 2010

Il gioco del “se fosse” è antico quanto il cinema, se non di più. Se il film di Edgar Wright “Scott Pilgrim Vs the world” fosse un aggettivo sarebbe eclettico, se fosse un animale sarebbe un camaleonte e se fosse un colore sarebbe l’arcobaleno. Invece è un film (un gran bel film) e se fosse il caso di affibbiargli un genere non sarebbe possibile farlo, al massimo si potrebbe risolvere la querelle dichiarando la pellicola vittima di contaminazione.

E’ questa la particolarità del terzo lavoro di Wright (dopo “L’alba dei morti dementi” e “Hot fuzz”), l’assoluta mancanza di appartenenza ad un genere. Malgrado i riferimenti continui a settori catalogabili come western, commedia adolescenziale e azione la storia di Scott Pilgrim si dipana senza un filo conduttore. Il protagonista, un 23 bassista interpretato da Michael Cera (“Juno”, “SuXbad” e “Anno uno”), fidanzato in maniera unilaterale con Knives Chau cerca di conquistare il cuore di Ramona, una ragazza enigmatica quanto attraente che però nasconde un segreto: i suoi ex ragazzi – e ragazze – hanno formato una gilda che combatte chiunque si avvicini a lei. Da una trama estremamente esile nasce un lungometraggio pieno di particolarità, omaggi e rimandi.

Innanzitutto la provenienza, il film nasce dalla trasposizione della serie di 6 volumi a fumetti del canadese Brian Lee O’Malley (intitolata "Scott Pilgrim") e ne denuncia pesantemente il debito, con inquadrature al limite della tavola disegnata. Ma la contaminazione non finisce qui, tutta la storia si dipana in via piramidale. Come in un videogioco anni ’90 stile “Street fighter” o “Tekken” Scott dovrà affrontare i rivali, fino al supercattivo finale, in una ascesa che incarna anche la crescita personale di ognuno di noi verso la maturità. Lo spettatore si sente così coinvolto e immedesimato nel dilemma finale come se si trattasse di una favola moderna.

Anche perché, gli elementi della favola ci sono tutti. Non manca il drago sputa fuoco (un perfido manager musicale), la bella principessa (dai capelli viola), la sguattera che si vuole affrancare dalla sua condizione (una ragazza immatura e appiccicosa), la saggia consigliera (una sorella sui generis) e il fido scudiero (un gay con cui condividere la stanza). D’altra parte l’utilizzo di caratteristi e macchiette è in voga fin dal neorealismo italiano e non sarà certo Wright a farne a meno. Il regista però aggiunge del suo, dirigendo in maniera frammentaria e discontinua, accostandosi, chissà se in maniera voluta, al grande Tarantino. Il maestro pulp sembra permeare la pellicola (va ricordato che Wright ha firmato uno dei finti trailer di Grindhouse, penultima fatica tarantiniana) con grafiche video ludiche come in “Kill Bill”, soluzioni musicali originali (qui addirittura parte integrante della trama) e violenza così iperbolica da sembrare stilizzata e perciò innocua. I duelli, in pieno western mode, non sono altro che l’ennesima prova della vicinanza di Scott Pilgrim al cinema che fu.

Insomma, di carne al fuoco ce n’è tanta. Il rischio di avere un piatto troppo ricco è forte ma a parte un paio di passaggi banali quanto dovuti le due ore scorrono via veloci. A pellicola finita, poi, non si può fare a meno di avviare una riflessione sul mondo del cinema e più in generale sul nostro modo di vivere. La settima arte esce in qualche modo ibridata con altra forme d’intrattenimento come i fumetti e i videogiochi. Difficile stabilire se ne sia arricchita o meno, resta importante prenderne atto e scrutare l’orizzonte per vedere dove porterà questa nuova ondata di contenuti contaminanti. Naturalmente, il discorso non può non allargarsi e comprendere un mondo dove si vive a cavallo di più linguaggi, come per il cinema. La cucina, la musica, la cultura e perfino la politica sono implementati da modelli che vengono da fuori o comunque diversi da quelli canonici del nostro paese.

La lezione di Scott, allora, è che di fonte ai piccoli fatti della vita abbiamo più scelte di quanto possa sembrare perché il nostro livello (per usare un’espressione cara ai videogiochi) è il mondo e perciò si può sempre “andare a prendere un’altra vita”.