Caro Direttore,
in un angolo della mia libreria, lontano dalle finestre che s’affacciano su Central Park South, s’addensa una nuvola di piombo, carica di grandine e pioggia. E’ l’antro degli scrittori apocalittici, coccolati negli anni in cui frequentavo una Londra grigia e industriale, abbandonati per l’America elettrica e gioiosa di Walt Whitman e oggi rigenerati dal disordine mondiale, dall’impennata del gallone e dalla dispersione d’identità. Così George Orwell ritorna ad essere profetico, Ray Bradbury è il pittore perfetto della società distopica, Orson Wells è il mago della paura aliena. Ma è soprattutto Jean Raspail che si staglia nella sua grandezza visionaria con un libro intitolato “Il Campo dei Santi”. Opera in ombra, racconta l’invasione di una massa di poveri dell’India che s’impadronisce di una flotta e decide di invadere l’Europa. Gli immigrati non incontrano ostacoli, addirittura un gruppo di francesi sulla Costa Azzurra prova a rispedirli indietro, ma viene bombardato da uno stormo di aerei inviato da Parigi. A beneficio di quei pochi che avranno voglia di leggerlo, non racconterò l’epilogo del libro, ma esplorandone le pagine mi sono chiesta: “Quale scrittore, intellettuale italiano è oggi degno dell’aggettivo apocalittico?”. Mi è venuto in mente un solo nome: Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia del governo Berlusconi. Sorpresa dalla rapidità e naturalezza della risposta che mi sono data, ho cominciato a osservare meglio il carattere del personaggio e, come vedranno i lettori dell’Occidentale, credo di non essermi sbagliata.
Prima di tutto, l’estetica: Tremonti è dimagrito per via catodica, (io lo trovavo più interessante con un po’ di pancetta), gli occhiali sono demodè, i suoi abiti sono né da Savile Row né impregnati d’eleganza partenopea, quella che per intenderci faceva indossare a Eduardo De Filippo un cappotto confezionato in lovat-grey. Se il sopra non sorprende, è più intrigante il sotto. Oh, direttore, nessun doppiosenso, sono certa che un esteta come lei sa apprezzare le bretelle tremontiane, quelle sì di buon gusto anglosaxon. Non so se Tremonti porti quelle di Albert Thurston, la più antica casa produttrice del mondo, ma sono decisamente in tono, rimandano a atmosfere soffuse, al legno delle biblioteche di Oxford e al tabacco dei club di Londra. In Tremonti è l’accessorio a fare la differenza. E’questa la traccia importante per ritrarne il profilo.
Tremonti infatti riempie il suo discorso di accessori retorici, ha una visione del futuro che procede per metafore, paradossi, contraddizioni e momenti terminali costellati di voraci buchi neri, supernovae e galassie implose. Il suo fascino è indiscutibile, la sua capacità di produrre immaginazione sorprendente. Un libro come La paura e la speranza deve molto di più alla figura intellettuale proiettata dal suo autore che al suo contenuto, ma Tremonti non è un romanziere – in lui lo scarto letterario è compresso – e dunque la sua opera deve essere valutata non autonomamente ma in simbiosi con l’uomo, i suoi atti, i suoi gesti, i suoi cortocircuiti, le sue furie, le sue propagazioni artificiali. Il ministro dell’economia ama giocare a dadi con il caos e questo lo rende un politico singolare. A nessuno nel Palazzo piace scendere in trincea e rischiare nel Risiko della battaglia, ma per Tremonti è l’elemento naturale, il suo spazio di manovra. Se fosse nato nell’epoca della Francia napoleonica sarebbe stato un perfetto ministro della guerra, un Henri-Jacques-Guillaume Clarke, duca di Feltre, insostituibile uomo d’armi prima per Napoleone Bonaparte, poi per Luigi XVI, infine per Talleyrand e Richelieu.
Essendo nato in tempo di pace e in una nazione imbelle, Tremonti combatte le sue guerre nel campo dell’economia e della politica. Nei momenti di craxiana “gran confusione” esprime il meglio (e il peggio) di sè. Non a caso non ha mai preso le distanze dalla magistratura e, anzi, mentre infuriava Tangentopoli incarnava lo spirito della borghesia lombarda desiderosa di un certo ordine di antica matrice austro-ungarica. Negli anni dello scandalo Parmalat (qui Tremonti ebbe lo sguardo più lungo di chiunque altro) inventò il “metodo Aspen”, un tavolo bipartisan del think tank di filiazione americana al quale sedeva anche il magistrato più acuto dell’ex pool di Milano, Francesco Greco, il numero uno nelle indagini sui reati finanziari.
Oggi Tremonti è l’unico ministro dell’Economia d’Occidente a udire e amplificare lo scricchiolìo sinistro del sistema generato da Bretton Woods e dal fallimento del progetto Euratom. Avverte i rari lettori di libri presenti in Parlamento sul “rischio di un altro Ventinove” e per un gioco ironico del fato si ritrova a braccetto di un suo storico nemico, l’economista Nouriel Rubini, sulla linea Maginot del catastrofismo economico. Il politico di scuola classica smussa e rassicura, mentre quello di scuola tremontiana ammonisce e inquieta. Teorizza la fine “dell’età dell’oro” e il ritorno di una dura e glaciale “età del ferro”, vede l’invasione cinese e indiana alle porte – toh, la suggestione del libro di Raspail – denuncia la scomparsa della tradizione e la perdita dell’identità della Old Europe. Tremonti è il campione del politico contemporaneo “troppo avanti”, è un ritorno al futuro che non ha niente a che fare con lo stile cinematografico brioso di Robert Zemeckis, è un personaggio che appare e scompare nel fondale teatrale polveroso e post-atomico del Mad Max di George Miller.
Il radar di Tremonti visualizza sui mercati locuste bibliche e segnala l’esplosione di piaghe in successione. E’ l’uomo che vede “l’unica bolla” e in questo è parente stretto del George Soros che ha scritto un saggio (“The Credit Crisis of 2008 and what it means”), libro di cui consiglio vivamente la lesta lettura. Capirete perché fin dagli anni Novanta al mercato azionario preferisco l’oro e i gioielli di Tiffany. Non è una questione solo di vanità.
Tremonti nel governo di Silvio Berlusconi è un’eccezione probabilmente destinata nel prossimo futuro a non confermare la regola del capo che ha sempre ragione. Il ministro dell’Economia non è più giovanissimo (è nato il 18 agosto del 1947), ma politicamente ha un avvenire che va oltre Silvio Berlusconi. Come il duca di Feltre sopravvisse alla caduta di Napoleone (e in un certo momento consigliò al generale anche la resa) e fu al comando dell’armata francese per molti anni ancora, così Tremonti è ugualmente (pre)destinato a servire lo Stato a lungo. Ma con uno scarto potenziale ulteriore: è in bozzolo il leader futuro di un partito borghese che potrebbe nascere un giorno dal tramonto di Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Nessuno dei due ha un erede diretto e i delfinati non sembrano far parte di questa storia politica. Tremonti può esserne la sintesi. Il suo miglior alleato è un’intelligenza non comune, il suo peggior nemico è un’intelligenza solitaria e narcisistica. E’ da questa solitudine che eruttano metafore taglienti e scenari che consapevolmente affondano nel mito. Tremonti è uomo di poliedriche letture, la sua seduzione è di tono e timbro completamenti diversi rispetto alla fascinazione berlusconiana. Silvio traduce automaticamente in voti i suoi sorrisi, i suoi slanci, le sue boutade e la sua incredibile capacità di parlare direttamente all’elettorato. Il Cavaliere è il personaggio perfetto per un cocktail sceneggiato da Truman Capote, Berlusconi è naturalmente hollywodiano e corteggia le donne sfoderando l’anima latina. Tremonti invece è un carattere percorso da humour nero, maschera da Edward Morgan Forster, scrittore educato al King’s College dell’università di Cambridge, personaggio da “Camera con vista” che non vedrete mai corteggiare in pubblico una signora.
Il professore è un enzima che scatena reazioni chimiche complesse, affascina la destra in cerca d’autore e la sinistra senza nome, ma finora ha mostrato un grande limite: l’incapacità di creare un reseau, di presentarsi con un gruppo di uomini e donne che lo riconoscono come il capo. Ha un carisma ancora incerto, cattura l’attenzione, sa stendere l’avversario con una battuta fulminante, ma non è detto che abbia in futuro il consenso per diventare un leader di valore assoluto. E’ questa l’unica visione alla quale lo sguardo di Tremonti per ora non ha accesso: è troppo rivolto su se stesso per cogliere i limiti del suo avvenire.
Si dice che tra Tremonti e Gianni Letta sia in corso una sotterranea guerra di potere. Può darsi, ma entrambi in realtà non hanno interesse a un conflitto il cui risultato sarebbe un la mutua distruzione. Sono due carrozze reali che corrono su sentieri diversi. Letta è un uomo che segue dall’inizio alla fine i suoi dossier, è naturalmente felpato e votato alla ricerca dell’armonia. Tremonti è un creativo che si sente vivo solo se cambia spesso lo spartito da suonare, adora il ritmo dei tamburi, la marcia, il suono stesso delle sue parole quando il suo discorso si trasforma in una freccia. E’ acuminato e preciso, ma non ha ancora la gittata di un cannone. Letta è un capolavoro compiuto, Tremonti è un’opera in fieri.
Il divenire tremontiano però non è politico fino in fondo, resta tentacolarmente legato alla speculazione (accademica) e alla predizione del futuro. Il problema è che un ministro non si fa profeta anche se ha la visione giusta e l’orizzonte sgombro da ostacoli.In ogni caso, come diceva John Maynard Keynes «le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto» e a Giulio Tremonti oggi sta riuscendo la non piccola impresa di dettare la linea prima che qualcuno provi a scrivere il suo epitaffio.